Per una lettura di san Josemaría

Il tempo che ci prospetta Josemaría Escrivá è il luogo normale di estrinsecazione dell'avventura umana. Tutto s'incentra sul discorso evangelico dei talenti, che non possono essere sperperati né tenuti nascosti; il tempo amico è quello pieno di attese e fiducioso nella nostra creatività.

Il tempo che ci prospetta Josemaría Escrivá è il luogo normale di estrinsecazione dell'avventura umana. Tutto s'incentra sul discorso evangelico dei talenti, che non possono essere sperperati né tenuti nascosti; il tempo amico è quello pieno di attese e fiducioso nella nostra creatività.

Chi frequenta la storia religiosa s'imbatte non di rado in alcune torsioni interpretative, di evidente origine ideologica, che deformano la conoscenza degli avvenimenti ed oscurano la loro comprensione.

Se è così, se a questi nuovi idoli si inchina il lavoro dello storico, le conseguenze sono importanti. Il passato si riduce ad un fiume, ricco di bracci morti ed insignificanti rispetto all'unico ramo che noi, i posteri, eleggiamo meritevole di significato e valore.

C'è dell'altro. La democrazia politica, o almeno una sua presuntuosa vulgata, si ribalta addosso alla ricerca di Dio e all'organizzazione ecclesiale in cui storicamente si è espressa dal conferimento a Pietro di quelle tali chiavi. Ha preso forma, da almeno un secolo, una sorta di pregiudizio antigerarchico, per cui si postula una melior condicio della "base" rispetto al "vertice".

Infine, la bipolarità assoluta e oserei dire maniacale ortodossia-dissenso. È inutile dire quale sia il fronte preferito, dove s'incentrino le simpatie, le consonanze e gli interessi.

Nulla di tutto ciò si trova negli scritti di Josemaría Escrivá: non la pretesa di scegliersi un'idea di progresso, non il rovesciamento della gerarchia cattolica com'è uscita da due millenni di vissuto religioso. Ecco perché è possibile tentare un profilo "civile" degli insegnamenti di Josemaría Escrivá, ma sempre tenendo conto... che la voce "politica" non compare — come tale — nei pur accuratissimi indici per materia posposti ai suoi scritti.

Escrivá non aderisce all'idea, prevalente fra Otto e Novecento, di un tempo ordinato al progresso, inteso come obbligata evoluzione dal buio alla luce.

Tutto s'incentra sul discorso evangelico dei talenti, che non possono essere sperperati né tenuti nascosti. Davvero, allora, "il tempo è il nostro tesoro, il "denaro" per comprare l'eternità" (Solco, 882).

Il tempo torna ad essere, come nella proposta evangelica, il teatro, il luogo normale di estrinsecazione dell'avventura umana, la nostra specifica tappa del cammino che dobbiamo percorrere tra la prima e la seconda venuta del Salvatore.

Ma il tempo amico che ci prospetta Josemaría Escrivá, quello pieno di attese e fiducioso nella nostra creatività non è figlio dell'ottimismo pragmatico contemporaneo, a sua volta antidoto alla dissipazione e all'angoscia. Esso si rifà addirittura alla lezione del secondo capitolo della Genesi, che vede l'uomo, antecedentemente alla caduta, inviato nel giardino dell'Eden perché lo lavorasse e lo custodisse (2,15).

L'intuizione a suo modo rivoluzionaria di Escrivá non distingue tra l'uno e l'altro tipo di impegno quotidiano: non cosa fai ma come la fai. Con ciò, le secolari separatezze tra lavoro degno e fatica servile vengono meno, subordinate come sono ai valori incorporati. "L'uomo nasce per lavorare, come gli uccelli per volare" (Amici di Dio, 57). Tutto l'agire nella storia, se buono e ordinato a Dio, viene rivalutato e gli viene restituita l'antica dignità.

Ecco allora che si chiude un lungo fraintendimento, che aveva voluto vedere nell'umana intrapresa un effetto della caduta. Ogni "lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali (...) e viene assunto e incorporato all'opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo" (Colloqui, 10).

Escrivá, restituisce al lavoro l'originaria dignità facendolo parte integrante del generale progetto di santificazione del tempo. La gran questione non è la riduzione dello spazio dedicato al lavoro, ma la sua piena e non vocale esaltazione come via ordinaria di espressione della genialità creativa dell'uomo.

L'universale ricapitolazione in Dio è capace di trasfigurare, con il lavoro, la prosa quotidiana, come quello che "prima sbucciava patate "soltanto"; adesso si sta santificando sbucciando patate" (Solco, 498).

Quella di Escrivá è una via nuova e diversa, che apprezza il lavoro senza zuccherosi sentimentalismi, conferendogli invece una sorta di straordinario valore aggiunto. Senza retorica può allora proclamare che "la santità "grande" consiste nel compiere i "doveri piccoli" di ogni istante" (Il lavoro, p. 94), e, insieme, che "la vera povertà non consiste nel non avere, ma nell'essere distaccato: nel rinunciare volontariamente al dominio sulle cose" (Il lavoro, p. 78). Ecco perché bisogna lavorare "bene": "siamo obbligati a lavorare, e a lavorare coscienziosamente, con senso di responsabilità, con amore e perseveranza, senza trascuratezze e leggerezze: perché il lavoro è un comandamento di Dio" (Forgia, 681).

Le conseguenze sono decisive. L'irruzione del santo nella scansione normale dell'esistenza permette di attingere traguardi ultimi senza gestualità eccezionali, restando nelle collocazioni "normali" della vita civile: la famiglia, l'occupazione, i cerchi concentrici dell'organizzazione sociale e, sì, anche politica.

Dai tempi — invero non lontanissimi — della presa di coscienza della cosiddetta questione sociale molte energie della comunità ecclesiale si sono rivolte alla rimozione delle maggiori ingiustizie provocate dall'industrializzazione e dai suoi corollari: nascita del proletariato, crescita di anarchia e socialismo, protesta, di classe, spettro e speranza della palingenesi: la rivoluzione. Ma nella proposta di Escrivá, forte è la consapevolezza delle possibilità, anzi della necessità di una ricaduta sociale potentemente riformatrice.

Il tempo, come tale, non legittima soluzioni pratico-politiche. È possibile e anzi doveroso guardare avanti: proprio come scienza e tecnologia sono al servizio dell'uomo, e non idoli cui sacrificare la creatività incessante cui siamo chiamati. Ancora più importante, se possibile, dell'enunciazione di principio sono le sue implicazioni concrete. Tutto deriva infatti da quell' "unità di vita" su cui insiste Escrivá (Amici di Dio, 165).

Esistono dei criteri per rendere trasmissibile e fruttuoso l'intervento nella storia. Escrivá ha in mente cittadini uguali agli altri nei diritti, nei doveri e nelle possibilità. Rispetta ed ama l'esperienza millenaria dei religiosi, ma suggerisce un modello di vita ordinaria nel tempo (Colloqui, 118).

Vuole insomma "la giustizia fra gli uomini" (È Gesù che passa, 52), ma la declina secondo un'ampiezza insolita, perché le fa ricomprendere, oltre le dimensioni usuali, i doveri verso Dio, non riconducibile ad un riferimento neutro e simbolico.

Supplemento de L’Osservatore Romano, 6-10-2002

Nota

Le citazioni si riferiscono a Amici di Dio, Colloqui con mons. Escrivá, È Gesù che passa, Forgia, Il lavoro rende santi, Solco (varie edizioni).