La Nonna, il matematico e me medesimo

La «Nonna» è la mamma di Josemaría Escrivá, la signora Dolores Albás, che, insieme alla figlia Carmen, accolse nel 1940 il giovane Casciaro nella residenza dell’Opera di via Jenner a Madrid, con autentico affetto di madre e di sorella. Al punto che poco sopra l’autore del libro annota: «L’aria di famiglia che si respira nei centri dell’Opus Dei deve molto alla Nonna e a Zia Carmen».

Dolores Albás, madre di Josemaría Escrivà

Da molti anni mi raccomando alla Nonna ogni qual volta perdo un oggetto a cui tengo particolarmente o che mi è necessario. Ho sempre finito per ritrovarlo in circostanze che sembravano impossibili. Sarebbe lungo parlarne».

Avevo scorto queste considerazioni di José María Casciaro, a p. 119 del suo volume Vale la pena (Edizioni Ares, Milano 1999), dove l’ormai anziano sacerdote dell’Opus Dei raccoglie le memorie di tre anni di vita accanto al fondatore Josemaría Escrivá. La «Nonna» è la mamma di quest’ultimo, la signora Dolores Albás, che, insieme alla figlia Carmen, accolse nel 1940 il giovane Casciaro nella residenza dell’Opera di via Jenner a Madrid, con autentico affetto di madre e di sorella. Al punto che poco sopra l’autore del libro annota: «L’aria di famiglia che si respira nei centri dell’Opus Dei deve molto alla Nonna e a Zia Carmen».

Nel soffermarsi sulla figura della signora Dolores, mons. Casciaro ne sottolinea di continuo, anche senza volerlo esplicitamente, il cuore con cui «accudiva» alla casa a partire da chi la abitava. Donna tenace e avvezza al sacrificio, faceva ogni cosa con grande naturalezza, risultando sempre premurosa e attenta, seguendo un ordine interiore impeccabile che si traduceva nello spazio a lei esterno. E proprio in questa virtù dell’«ordine», proprio nel saper amministrare le faccende domestiche secondo criteri di logica utilità, l’autore del libro rinviene la sostanza di quel piccolo grande dono che le era proprio in vita e che le è stato confermato in morte: quello di ritrovare e aiutare a ritrovare le cose apparentemente smarrite.

«Le ultime cose perdute, poi recuperate, sono state il libro della Liturgia Horarum regalatomi da mons. Álvaro del Portillo quando era prelato dell’Opus Dei, e il passaporto, alla vigilia di un viaggio all’estero. Il primo, ovviamente, mi stava molto a cuore, mentre lo smarrimento del documento mi avrebbe costretto a cancellare o a rimandare un viaggio con giorni e ore di conferenze già fissate»... All’elenco, don José María Casciaro, evidentemente convinto della bontà delle sue asserzioni, faceva seguire una vivace raccomandazione: «Il lettore a cui capitasse di perdere qualcosa che gli è caro faccia come meglio crede; ma io gli suggerisco di ricorrere alla signora Dolores Albás, madre del beato [così allora] Josemaría».

Mi colpì questa esortazione, sprigionatasi dalla carta come un acuto in uno spartito ove la discrezione e la pacatezza dei toni restavano, fino a quel rigo, costanti. Mi commosse, e lasciò traccia, il legame filiale che si era stabilito anni addietro tra il giovane Casciaro e la signora Dolores, saldo a dispetto dei decenni, al punto che l’anziano sacerdote si dimostrava ora pronto a lanciare quasi una sfida verso chiunque dubitasse della presenza, sempre partecipe e vivificante, nella sua vita, della madre del santo fondatore dell’Opus Dei. Ma certo a quel tempo non potevo prevedere che presto, fra i lettori, mi sarei trovato io stesso nell’urgenza di dover raccogliere quella stessa «sfida».

José Escrivá (1867-1924) e Dolores Albás (1877-1941)

Allo «stupido» non bastano 2 chiavi

Accadde nell’estate successiva. Mi trovavo sul bagnasciuga della spiaggia di Arenzano, nel Ponente ligure. Con un atto di volontà, dettato da una certa dose di disperazione, mi estraniai dal cicaleccio assordante e dal via vai che mi aggredivano da ogni lato: mi ero rammentato, di colpo, dell’invito di don José, e mi misi a chiedere con tutte le mie forze l’aiuto di «nonna» Dolores.

Ero stato il protagonista di un’azione scellerata, di cui proprio non mi capacitavo, avendola per giunta ripetuta con leggerezza, nella sua gravità, ben due volte nello spazio di ventiquattr’ore. Oltre che sentirmi uno stupido in mezzo a tutta quella gente, non avevo di che scappare: mi trovavo, letteralmente, «a piedi».

Fu di venerdì, il giorno di mercato. Nel bel mezzo dell’estate agostana con mia moglie e il piccolissimo Francesco (di soli tre mesi) facemmo una bella provvista di latticini, frutta e verdura. Prima di guadagnare la casa in cima alla pineta, che anche di giorno offre un po’ di riparo, affidammo auto e mercanzia al parcheggiatore per una scappatella in spiaggia libera che ci avrebbe ripagato di tanta fatica. Il nuoto fu, come si dice in questi casi, davvero ristoratore; ma si risolse in dramma. Erano bastate le sirene delle petroliere perché mi lasciassi risucchiare dal richiamo delle onde; e mi ero tuffato, di nuovo dimentico della chiave della Mitsubishi, nuova fiammante, nella tasca aperta dei pantaloncini da bagno. Un oggetto tecnologico e costoso dotato di codice elettronico salva-ladri stava ora in balia dei pesci.

A differenza del giorno prima, non trattenni quella facciata di compostezza a sostegno dell’imbarazzo che mi sgretolava dentro, ma uscii di corsa dall’acqua brandendo ampi colpi sul petto. Nella mezz’ora successiva ripetei la medesima sequenza dentro e fuori dall’acqua una trentina di volte, finché non mi arresi, sconvolto: tra i sassi neri e bianchi resi lucidi dal mare proprio non si vedeva la chiave con l’impugnatura nera in gomma e l’anima di acciaio. Eppoi, in quel carnaio, chissà dov’era sepolta?

È proprio vero, l’assassino torna sempre sul luogo del delitto: a mie spese ne trassi la consapevolezza. E dire che quanto era successo poche ore prima bruciava ancora. Il giovedì, infatti, eravamo stati ai Bagni Miramare. Avevamo affittato un comodo ombrellone, ma il sole riuscì lo stesso a stuzzicarci dal momento che nel giro di dieci minuti tra me e mia moglie Benedetta scoppiò il nervoso, tanto che pieno di sdegno me la lasciai alle spalle puntando dritto al mare col costume a fiori e la chiave originale dello Space Runner astutamente riposta nella tasca... Davanti ai Miramare, per la fortuna del gestore, la sabbia da secoli si è ritagliata un suo spazio; e nella sabbia, valutai, si doveva esser conficcata la mia chiave in un sito imprecisato tra i venti e i quaranta metri dalla riva, laddove, con certo gusto per l’esibizione, avevo preso a fare capriole. Di fronte a Benedetta, in seguito smentito dai fatti, difesi altre soluzioni... Forse la chiave era stata più probabilmente sottratta dalla borsa sulla sdraio, magari per gioco, da qualche bimbo della spiaggia.

Preghiera semplice

Il venerdì, alla stessa ora, avevo perso ogni propensione e gusto per Poirot. Le chiavi di riserva erano finite e non mi restava che sperare in un intervento urgente della Mitsubishi Italia, poiché, nel segno di Ferragosto, compresi subito che sarebbe stato arduo, il lunedì successivo, raggiungere Rimini dove ero atteso per lavoro. Stavolta insieme con Benedetta e il passeggino (il giovedì gliel’avevo risparmiata) assalimmo col fiatone la irta salita che porta all’appartamento sulla collina e ci attaccammo al telefono in cerca di soccorso. Tutto inutile, salvo accettare un intervento di meccanici stile Knox che sarebbe costato milioni (di lire).

Prima di metter mano al portafogli, decisi di riprovare a cercare. Corsi di nuovo al mare. Lungo il tragitto, mi immaginai, senza appetito, il minestrone al formaggio che intanto doveva friggere nel baule della macchina. Ero sprovvisto di maschera: così mi affidai al fidanzato di mia cugina che ne aveva una bella e a suo fratello che si presentò con più eleganti ma meno pratici occhialini uguali ai miei. Affondando i piedi nell’acqua tra i sassi e sassolini della spiaggia libera mi convinsi che la ricerca sarebbe stata vana. C’erano centinaia di bagnanti e ormai eravamo a due ore dallo smarrimento; l’acqua si rimestava torbida contro i vicini scogli e per di più al fratello del fidanzato si spezzò l’elastico degli occhiali. Sempre più stizzito, venti minuti più tardi, gli cedetti i miei e guadagnai la riva. Ma fu in quel momento che mi accorsi che nella foga di quel giorno non avevo ancora giocato la carta che, almeno a parole, ho sempre ritenuto vincente: mi accorsi che non avevo ancora chiesto aiuto a Dio. Ed ecco che mi sovvenne che «vale la pena» rivolgersi a nonna Dolores «ogni qual volta perdo un oggetto particolarmente caro o necessario», e che don José, così facendo, ha «sempre finito per ritrovarlo in circostanze che sembravano impossibili».

Rivolsi allora una preghiera sincera, scusandomi per il disturbo per una cosa così da poco, che tuttavia era bastata, con un figlio tanto piccolo, a gettarmi nell’ansia, a rendermi impotente rispetto alla partenza e agli impegni ormai prossimi che mi aspettavano. Chiesi testualmente che per l’intercessione della «Nonna» potessi esser confermato della sollecitudine paterna di Dio. Aggiunsi che, se avessi ritrovato le chiavi, avrei raccontato a tutti questa storia a voce e per iscritto.

Ero appena uscito dal mio profondo raccoglimento che vidi il fidanzato di mia cugina venire dall’acqua scuotendo la testa in segno di diniego; sembrava dire «non c’è niente da fare», ma una punta di sorriso tradiva un’altra verità: l’occhio mi cadde sul suo costume dove nell’elastico aveva fissato la mia chiave. «È incredibile», disse, «era sotto i sassi a tre metri dalla riva dove ancora si tocca. Non vedevo nulla, poi qualcuno ha smosso il fondo passando... ed eccola qui».

In preda a una subitanea emozione volli comunicare immediatamente la mia esperienza di devozione. Il mio futuro cugino dapprima mi guardò con benevola incredulità, ma stupì di colpo quando allusi alle «circostanze quasi impossibili del ritrovamento» che lui stesso aveva sottolineato... Si fece serio e mi chiese dove potevo aver smarrito la prima chiave, il giorno precedente, ammesso che ciò fosse accaduto effettivamente in acqua. Gli indicai un braccio di mare piuttosto ampio e lui ci si tuffò. Dieci minuti più tardi, stavo offrendo da bere a suo fratello quando alle nostre spalle rispuntò felice rivendicando un bicchiere anche per sé. «Ecco l’altra chiave!», esultò: «Avevi ragione tu». E qui si riferiva al mio convincimento sull’efficacia della preghiera fin nelle circostanze più semplici. La chiave, mi spiegò, stavolta l’aveva trovata a circa venticinque metri dalla riva e otto nove metri di profondità: «La punta luccicava sul fondo baciata dal sole, fuoriuscendo dalla sabbia».

Ricordo perfettamente il brivido che mi scosse da capo a piedi, quando, inserendo una dopo l’altra le chiavi sotto il volante, l’automobile rispose a meraviglia con un bel fraseggio del motore. Non sapevo se inchinarmi alla tecnologia Mitsubishi o dover a mio turno testimoniare che è prerogativa della «Nonna» sistemare sempre ogni cosa al meglio; quel che era certo è che un giorno e due ore e mezzo a mollo nell’acqua salata non avevano danneggiato il dispositivo elettronico delle chiavi. Ripercorsi la salita della pineta strombazzando; oltretutto, alla bisogna, nel baule la cena era bell’e pronta: raclette e frutta cotta!

La corda del Professore

Festeggiamo, più opportunamente, con prosciutto e melone, nuovi pomodori freschi del negozio, un Pinot bianco frizzante e del buon gelato. Il vino era stato offerto da un amico professore, che rimasto per qualche giorno solo, con le figlie grandi in vacanza con le amiche, condivise con noi quel pasto e la mia storia. La condivise al punto che l’arricchì di senso, mettendola da principio più o meno consciamente in relazione a un altro fatto, che si dimostrerà analogo, che l’aveva visto come protagonista. Questo signore, lo chiameremo Tommaso Talenti, è un noto matematico, docente nella più prestigiosa università scientifica del nostro Paese. «Noto» perché bravo e, quindi, famoso, a dispetto della più totale discrezione e riservatezza che lo contraddistinguono. Dedica tutta la vita alla ricerca nel campo matematico, elaborando teoremi dell’assurdo, che gli permettono, fatta salva un’ipotetica premessa, di esplorare con rigore scientifico dei mondi paralleli supposti ma credibili... Di queste cose, oltre al prof. Talenti, si occupano in otto o nove altri scienziati, in contatto fra loro, nel resto del mondo.

Ma veniamo al fatto. Ottimo nuotatore il nostro amico copre ogni giorno in stile libero due chilometri dal porto di Arenzano, dirigendosi ora verso Genova, ora verso Varazze, talvolta spingendosi al largo. Il giorno prima, ci rivelò, sotto un sole bellissimo (il particolare va colto) mentre superava un vasto banco di sabbia scorse una corda spessa, bianca che si dipanava sul fondo. Si mise a seguirla con gli occhi, era lunga molti metri, e finiva annodata a una piccola ancora che il proprietario evidentemente non aveva saputo recuperare. Talenti passò oltre, ma compiute poche bracciate, ci ripensò. La fune era nuova e magari gli sarebbe anche riuscito di disincagliarla... Si voltò indietro, ma con suo grande stupore non riusciva più a vederla. Passò la mezz’ora successiva a esplorare la zona. Inutilmente. Si immerse e raggiunse il fondo più volte, ma non scovò la corda né tantomeno l’ancora. Finalmente si arrese e riprese la via della terraferma.

Uno sguardo buono

Ma l’episodio l’aveva turbato. Da subito si era interrogato sul perché a volte è dato di vedere, intuire, perfino conoscere qualcosa di cui, poi, non possiamo disporre. L’osservazione lo lasciava inquieto, perché intimamente correlata al suo vissuto professionale. «Ho passato tutta la vita», spiegò, «ad approfondire percorsi logici dietro a delle porte che non esistono, che ho messo io. Costruisco ponti e strade in un regno di fantasia. Se un giorno, magari fra mille anni, qualcuno trovasse che una di queste porte esiste, allora, oltre la soglia avrebbe autostrade già spianate. Ma io non lavoro per me, lavoro per chi verrà. Forse, lo spero, lavoro per Dio». Così, con naturalezza, il discorso si spostò sull’Artefice di tutte le cose, su quel Dio a cui Talenti non si era affidato da giovane, ma in cui sperava nella maturità, se non altro come datore di senso delle sue indagini ancor prima che della sua esistenza. Consapevole della propria finitezza, temporale, spaziale e non da ultimo, intellettiva, il prof. Talenti che non era cresciuto nella pratica religiosa, riconosceva ora nel Mistero del creato, un’armonia e una regia soprannaturali. La ragione lo obbligava a farlo: solamente un piano di salvezza più ampio avrebbe permesso di riscattare un domani i suoi calcoli e le scoperte monche di oggi. «Magari fra qualche giorno la corda bianca sarà scoperta da qualcun altro, che la recupererà e se ne potrà servire. Altrimenti devo pensare che è un segreto tra me e Dio, un dono che mi ha dato e che, al momento, non posso far altro che restituire a Lui». Come le nostre vite.

Anche l’esito di segno opposto del ritrovamento di tutte e due le mie chiavi spingeva la riflessione al medesimo epilogo. «Il Signore dà, il Signore toglie». Ma il doppio lieto fine della mia storia indusse il nostro ospite, a un delicato, rasserenato sorriso. Il Signore ama, e lo stesso fanno i santi, tutti coloro che lo seguono. Come la «Nonna». Nel rispetto della libertà, nella vita di ciascuno, ogni tanto Dio risponde, nell’evidenza della sua misericordia; e, con discrezione, chiede fede di fronte a quanto, apparentemente, resta di noi incompiuto.

L’intelligenza aveva portato il professore, con l’accettazione del limite, a pensare che dietro alle corde bianche intraviste lungo la nostra strada non potesse esserci che la mano di Dio; ma il ritrovamento, nella stessa sabbia del mare, di una piccola chiave di automobile, acutizzando la pregnanza del Mistero, rivelava in quello stesso Dio uno sguardo buono che gli toccò il cuore. Lo sguardo del Padre, sempre vigile e presente nella vita dei suoi figli. Sia che lo vediamo, sia che non vediamo. Sia che parli e ci disseti, sia che ci troviamo nel deserto. Nell’evidenza del segno, che trasluce vita eterna, sia nel mistero del silenzio, che induce compassione e insegna la pazienza.

Epilogo

Francesco dormiva beato. Con Benedetta e Talenti parlammo fino a notte fonda, con partecipazione, di Rivelazione, di senso dell’eterno, di Gesù Risorto, di filiazione divina; mentre esploravamo alla velocità della luce l’infinità dell’Universo e importanti scoperte scientifiche, finendo per sprofondare nell’abisso dell’animo umano, pieno di curiosità, di domande, di desiderio di compimento. E via via che il tempo scorreva cominciai a sentirmi un po’ meno stupido, convincendomi che se avevo smarrito entrambe le chiavi in un modo così palesemente sciocco era stato perché forse Qualcuno aveva stabilito i tempi e i luoghi del ritrovamento e di quella cena, perché in tanti potessimo riconoscere, con altrettanta evidenza, in Chi riporre piena fiducia.

Da Studi Cattolici, 509-510, luglio-agosto 2003

Ulteriore informazione: La famiglia Escrivá