La bellezza teologica di una statua

Riflessioni teologiche attorno alla statua di san Josemaría in San Pietro, a Roma. Questa statua è venuta fuori da un grande blocco di marmo, estratto dalle cave di Pietrasanta, «la pietra santa». Gesù ha applicato a se stesso il Salmo 118, che avrà probabilmente cantato al momento dell'Halleldell'ultima cena: egli è la «pietra d’angolo». La statua di san Josemaría ricorda che Cristo attrae a sé tutte le cose.

Lasciatemi innanzitutto esprimervi la mia gioia per il fatto di trovarmi a Firenze. Quando visitai per la prima volta la vostra città, nel 1974, ne rimasi conquistato. In quell'occasione mi stavo recando a Roma per conoscervi san Josemaría Escrivá de Balaguer. Sono commosso per il fatto che è lui che mi riporta a Firenze, per la presentazione del libro sulla statua monumentale scolpita da Romano Cosci per la Basilica di San Pietro1.

Perché san Josemaría è rappresentato con delle vesti liturgiche? Da un punto di vista estetico, la casula ampia, sciolta, conferisce al marmo slancio e movimento. Questo abbigliamento sfugge all’usura del tempo, dato che è un abito sacerdotale fin dal quarto secolo. San Josemaría è come se stesse predicando, dopo la lettura del Vangelo: le sue mani sono espressive, trasmettono convinzione; è una “potenza di Dio per la salvezza” (Rm 1,16) a pervadere il suo atteggiamento.

Ma vi sono, a mio avviso, altre ragioni che danno senso alla scelta compiuta. A volte si giustificano a posteriori delle scelte architettoniche con delle elucubrazioni fumose. Numerosi poeti, se fossero ancora in vita, si stupirebbero delle intenzioni sottili che vengono attribuite ai loro versi. Non penso tuttavia di avventurarmi imprudentemente su una strada di tal fatta, se avanzo qualche spiegazione teologica, che mi permetterà d’affrontare delle questioni al tempo stesso appassionanti ed attuali, d’una grande importanza, che si può riassumere con una frase del Vangelo secondo Giovanni che è stata scolpita sul marmo della statua: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Esse sono nel cuore stesso della natura umana e toccano ciò che è essenziale nel messaggio cristiano: culto, liturgia, lavoro, arte, amore, tempo, eternità.

1. Il culto spirituale

Al centro della relazione dell’uomo con Dio si trova la nozione di culto. La persona umana è creata per rendere un culto a Dio, adorarlo nella sua unità e trinità, unirsi a lui, entrare in comunione con il suo amore: entrare nella sua gloria, partecipando alla filiazione divina di Gesù. Cristo è la gloria del Padre (cf. Gv 1,14; 5,44; 7,18).

Ai tempi di Cristo il popolo ebreo attribuiva una particolare importanza al Tempio di Gerusalemme. Nel suo dialogo con una donna, che essendo Samaritana negava il ruolo del Tempio, Gesù afferma che bisogna adorare Dio «in spirito e verità» (Gv 4,23). Le dimensioni del Tempio si allargano al mondo intero. Dio attende da noi un culto spirituale, quello della nostra esistenza. Nel racconto della Genesi, una parola che in ebreo ha la stessa radice dei termini «culto», «coltivare», designa la vocazione umana: Dio stabilì l’uomo nel giardino dell’Eden «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Per molto tempo, numerosi autori hanno sminuito o deformato la portata di questo testo. Bossuet, per esempio, commenta che «la cultura donata all’uomo per suo esercizio, era come quella cultura curiosa che fa coltivare i frutti e i fiori più per piacere che per necessità»2. Più di due secoli dopo san Josemaría legge la Genesi in tutt'altra luce; una grazia di Dio gli fa comprendere che il lavoro è un cammino di santità, che ciascuno è sacerdote della propria esistenza (cf. 1 Pt 2,5), che l’altare d’un pittore, per esempio, è il suo cavalletto, e quello d’un chirurgo, la sala operatoria. Con il suo lavoro l’uomo imita i trent'anni di vita nascosta del Signore, l’artigiano (cf. Mc 6,3), il figlio del carpentiere (cf. Mt 13,55). «Il Padre mio opera sempre e anch'io opero» (Gv 5,17). La vocazione professionale è iscritta nel cuore dell’uomo.

Che cos'è la santità? È la gloria di Dio, il suo amore così forte che si comunica a noi: riferire tutto a Dio, lodarlo in tutto, «aver lasciato operare Dio» in noi, diceva il Cardinale Ratzinger commentando l’esperienza spirituale e il messaggio di san Josemaría3. Dio si aspetta forse da noi che trascorriamo le nostre giornate in chiese o monasteri? Evidentemente no. È il nostro luogo di lavoro che diventa tempio di Dio; o meglio, è il nostro essere stesso che è la casa di Dio. Qual è dunque questo nuovo culto?

È l’offerta di sé a Dio nella vita quotidiana. L’amore divino è così forte, Dio ci ama così tanto da volere non soltanto che gli diamo tutto, ma che doniamo noi stessi in risposta al suo amore. Ciò che ci chiede è già iscritto nel nostro cuore. Non si tratta di precetti esteriori, artificiali, neppure di regole semplicemente logiche, come quelle del codice della strada. Il cristiano vive innanzitutto a partire d’una fede che si traduce nell’amore di Dio e del prossimo, e si espande in una morale che non è limitazione. San Josemaría amava queste parole di san Pietro su Cristo, pietra viva, e il suo popolo santo: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pt 2, 4-5). L’olocausto del lavoro, della gioia, della fatica, del riposo, ecco l’ostia immacolata offerta al Signore; cosi parla San Josemaría quando commenta la lettera di san Paolo ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12, 1). Questo è il culto logico, conforme al Logos; è ancora un culto che conviene alla nostra umana natura, giacché formiamo, per usare le parole di Pascal, “un corpo pieno di membri pensanti”, e noi dobbiamo anche pensare per imparare ad amare4.

«Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?» si domanda il Salmista. «Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore» (Sal 116,12-13). Qui si dice tutto! Il rito del ringraziamento della liturgia ebraica culmina nel calice del Sangue di Cristo della liturgia cristiana, e nel culto spirituale, esercizio della carità, come spiega sant'Agostino: «Prendere il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore significa essere ricolmi di carità in tale pienezza che si sia pronti non solo a non odiare il fratello ma a morire per lui»5.

Le lettere di san Pietro e di san Paolo parlano dunque di questo culto spirituale, che trae la sua sorgente e trova il suo culmine nel culto per eccellenza: la liturgia eucaristica. Infatti, Gesù, il Verbo incarnato, vi offre se stesso a suo Padre per la nostra salvezza. Questo culto è così importante che il sacerdozio ministeriale è totalmente orientato ad esso.

Torno quindi alla domanda posta: perché san Josemaría è rivestito di paramenti liturgici? Si tratta della statua d’un sacerdote. La casula è precisamente il paramento che s'indossa per celebrare la Messa. Il Santo è dunque rappresentato nella tenuta che simboleggia la sua ragion d’essere: la liturgia eucaristica.

2. La liturgia

Cos'è la liturgia? La domanda ha fatto scorrere molto inchiostro da un secolo a questa parte. Si è parlato della Messa come di una cena, in riferimento al banchetto pasquale del giorno dell’istituzione, il giovedì santo. La si è qualificata come assemblea nella quale i cristiani si ritrovano: «qahal» in ebraico, «ecclesia» in greco, significa «convocazione», “assemblea”. La nozione di memoriale è stata valorizzata, poiché la Pasqua ebraica celebra la liberazione dell’Egitto. In vari scritti, dapprima come semplice teologo, poi come Papa, Joseph Ratzinger, oggi Benedetto XVI, ha offerto una sintesi di questi dibattiti. Egli conclude, nella linea dei Padri della Chiesa, che la liturgia è essenzialmente una preghiera: un'orazione, con un contenuto essenzialmente sacrificale, e anche con una sua dimensione conviviale; un'adorazione.

In effetti il banchetto pasquale ebraico dei tempi di Cristo era già molto differente da un pasto normale. Gli ebrei recitavano delle preghiere di benedizione e dei salmi. In continuità e al tempo stesso in rottura con questa tradizione, Cristo proferisce delle parole nuove e compie dei nuovi gesti. Perché la prima cena anticipa il sacrificio del Calvario. Nella liturgia dell’Eucaristia, il mistero pasquale è reso presente: la passione, la morte, la resurrezione e l’ascensione di Cristo.

Di conseguenza c'è nell’Eucaristia un grande mistero, il mistero di Cristo. Il nostro atteggiamento, di fronte a questo mistero, dev'essere la contemplazione e il rispetto di ciò che non ci appartiene, cioè a dire di quello che è sacro. La liturgia della Messa è dunque innanzitutto un'azione di Dio e una preghiera (d’altronde è lo Spirito che ci fa pregare). Ecco delle nozioni assolutamente essenziali nell’epoca di rinnovamento liturgico iniziato con l’enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia.

Ciò che è essenziale nell’Eucaristia è la presenza di Cristo, come è sottolineato nella Sacrosanctum Concilium6. Si tratta d’una presenza sacramentale, misteriosa, ma non per questo meno reale: è una presenza sostanziale. Che succede dunque nella Messa?

La risposta si trova nelle parole di Cristo: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Esse sono scolpite sul marmo della statua di cui parliamo. Dopo il suo ingresso trionfale a Gerusalemme, Cristo è glorificato da suo Padre in una misteriosa teofania, tra lo stupore della folla. Come più tardi nel Getsemani, in un momento d’angoscia, ma anche d’intimità con il Padre, e certamente di gioia interiore, le due volontà del Verbo incarnato si accordano tra loro; la volontà umana di Gesù si sottomette alla sua volontà divina: «e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora!» (Gv 12,27). Cristo pronuncia in quel momento una sorta di profezia: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me»; e l’evangelista precisa: «Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire» (Gv 12,33). L’elevazione di Cristo, al tempo stesso sulla croce e nella gloria, è innanzitutto un annuncio della sua morte, della sua resurrezione e della sua ascensione alla destra del Padre. La stessa idea era già presente in una precedente rivelazione agli ebrei: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo» (Gv 8,28).

In quest'orizzonte, la riflessione del cardinale Ratzinger attorno a Gv 12,32 come profezia del culto liturgico apre una prospettiva interessante: «Il sacrificio assume allora la forma della croce di Cristo, dell’amore che si dona nella morte, la quale non ha nulla a che fare con la distruzione, ma è un atto di nuova creazione che riporta la creazione a se stessa. Ogni culto è ora partecipazione a questa Pesach di Cristo, a questo suo “passaggio” dal divino all’umano, dalla morte alla vita, all’unità di Dio e uomo. Il culto cristiano è dunque concreto riscatto e realizzazione di quanto Gesù ha detto nel tempio di Gerusalemme all’inizio della settimana della Passione, nella domenica delle palme: “io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32)» 7. L’iscrizione della statua traduce in parole ciò che il marmo rappresenta: san Josemaría, rivestito dei paramenti sacerdotali, esercita il culto eucaristico, e questo culto rimanda al culto della vita personale tutta. In tal senso, questa statua è più d’un ritratto, è un'immagine.

3. L’amore

Qual è il contenuto del mistero della Croce? Perché Cristo attrae a sé ogni cosa dopo la Croce? Qual è questa forza d’attrazione che, per così dire, unisce al tempo stesso gli uomini con Dio e tra di loro? Ciò che attira tutti gli uomini a Cristo è il suo amore, la sua Persona stessa. È sulla Croce dove Cristo perdona i suoi carnefici, apre il Cielo al buon ladrone, ci dona Maria per Madre. La sofferenza estrema è anche il luogo dell’amore fino alla consumazione di tutte le forze vive del suo essere.

L’Eucaristia è innanzitutto il sacramento dell’amore. Mi sovviene la cappella del Santissimo Sacramento della Cattedrale di Santiago di Compostella. Vi si possono ammirare due grandi statue, a un fianco e all’altro del tabernacolo: una rappresenta la fede, l’altra la speranza. Perché non v’è la carità? Sicuramente l’avete già compreso: la carità è al centro, è l’Eucaristia.

Gesù dona liberamente la sua vita sulla Croce per salvarci. Egli stesso ha insegnato che non v’è amore più grande che dare la propria vita per coloro che amiamo. Come spiega Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazaret, la Croce è l’esaltazione di Cristo, la sua glorificazione, non solo perché essa è il preludio alla sua resurrezione, vittoria sulla morte, ma perché essa rivela ciò che Dio è: amore sostanziale.

La casula sacerdotale è un simbolo della carità. Benedetto XVI spiegava così questa idea: «la preghiera tradizionale quando si riveste la casula vede rappresentato in essa il giogo del Signore che a noi come sacerdoti è stato imposto. E ricorda la parola di Gesù che ci invita a portare il suo giogo e a imparare da Lui, che è "mite e umile di cuore" (Mt 11,29). Portare il giogo del Signore significa innanzitutto: imparare da Lui. Essere sempre disposti ad andare a scuola da Lui. Da Lui dobbiamo imparare la mitezza e l’umiltà – l’umiltà di Dio che si mostra nel suo essere uomo (…) Il suo giogo è quello di amare con Lui. E più amiamo Lui, e con Lui diventiamo persone che amano, più leggero diventa per noi il suo giogo apparentemente pesante»8.

V'è dunque una piena concordanza tra l’iscrizione scolpita sul marmo e l'abbigliamento sacerdotale: ambedue illustrano la carità di Cristo.

Il suo amore l’ha condotto a incarnarsi. Dio s’è fatto uomo. Dov'è la bellezza di Cristo sulla Croce, dopo la flagellazione, la coronazione di spine, gli sputi, i chiodi che trapassano le sue mani e i suoi piedi? «Egli non aveva né bellezza né decoro, per dare a te bellezza e decoro», scrive sant'Agostino; «Quale bellezza? Quale decoro?» domanda poi, per rispondere subito: «dilectionem caritatis», l'amore della carità9. Così, il Verbo di Dio s’è fatto carne per farci partecipare della sua divinità. Amando i nostri fratelli noi amiamo la carità che ce li fa amare, che è Dio stesso. È l’amore che abbellisce la nostra anima, così come l’amore per l'arte deve guidare lo scultore perché la sua opera sia bella e vera.

4. Il lavoro

L’iscrizione che si trova sulla statua è stata scelta perché essa è al centro di un'esperienza mistica di san Josemaría. Il testo di san Giovanni abbraccia degli aspetti significativi della storia e del carisma dell’Opus Dei. Il 7 agosto 1931, meno di tre anni dopo la fondazione, Josemaría Escrivá celebra il sacrificio eucaristico, quando d'improvviso, durante l’elevazione dell’ostia, subito dopo la consacrazione, le parole di Gv 12,32 si presentano in modo impetuoso alla sua mente. La relazione di ogni cristiano col Vangelo comporta una dimensione intima e personale. La Parola di Dio e la vita di Cristo danno la chiave di ogni vita autenticamente cristiana. Tuttavia, si produce qui un fenomeno particolare, sotto la forma di ciò che si suole chiamare una locuzione divina: le parole della Scrittura martellano l’anima in modo ineluttabile con un senso al tempo stesso evidente e nuovo: «omnia traham ad meipsum», secondo il testo della Vulgata, «attirerò tutto a me». Ecco come san Josemaría riferisce l’episodio nei suoi Appunti: «E io compresi che saranno gli uomini e le donne di Dio ad innalzare la Croce con la dottrina di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane… E vidi il Signore trionfare e attrarre a sé tutte le cose»10. L’esperienza colpisce il giovane sacerdote in quanto fondatore: tutta la sua concezione dell’esistenza cristiana ne è influenzata.

Così San Josemaría applica Gv 12,32 al lavoro. Joseph Ratzinger, come ho appena mostrato, evidenzia a sua volta la realizzazione della pericope nel culto cristiano. La Croce unisce culto e lavoro. La sostanza del testo è, per Ratzinger, la partecipazione alla creazione, una nuova creazione in quanto redenzione, morte e risurrezione, nella quale la misura dell’amore è quella del sacrificio della croce. Ora il lavoro partecipa della creazione e della redenzione amorosa. «Il lavoro – scrive san Josemaría – nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore»11. Il lavoro è redentore (anche Baudelaire loda la redenzione attraverso il lavoro!). Sull’altare, il lavoro umano, unito al Sangue di Cristo come l’acqua che il sacerdote mescola con il vino, entra per così dire nel mistero della passione, della morte, della risurrezione e dell’ascensione di Gesù, mistero che forma un'unità con il lavoro nascosto del carpentiere di Nazaret, e dove si trovano anche le relazioni familiari e sociali, come le amicizie. Il lavoro, divenuto sacrificio offerto come culto a Dio, raggiunge così la liturgia celeste. La Messa medesima, come san Josemaría un giorno comprese in modo tutto speciale, diviene un lavoro, un'opera di Dio. La casula è dunque la tuta di lavoro del sacerdote.

Qualche parola sul lavoro dell’artista. Mi sembra che tutto quanto detto s’applichi a lui in modo eminente. L’artista comprende che la santificazione del lavoro non è una sorta di perfezionismo, perché egli è sempre insoddisfatto della sua opera. Solamente Dio, per il suo amore, rende santi. L’amore che Dio ci chiede non è la ricerca di una perfezione fine a se stessa. Un giorno, san Josemaría commentò, osservando la pittura d’una cappella dedicata alla Santa Croce, che noi non realizziamo mai cose che non possano essere migliorate12. L’importante è agire per amore; questa intenzione sublima in qualche maniera la necessaria competenza tecnica. È forse in questo senso che si può comprendere il commento d’un grande pianista su alcuni giovani colleghi particolarmente virtuosi: «Suonano in un modo troppo meccanico; non imitano la voce umana».

Si tocca qui un punto di collegamento fra arte e vita spirituale. San Josemaría considerava infatti che “non possiamo essere soddisfatti di ciò che facciamo nel nostro servizio a Dio, così come un artista non è mai contento del quadro o della statua che viene fuori dalle sue mani” 13. Quando spiegava perché, parlava di un amante, della conquista spirituale, del Amore, insomma, che è sempre ansia di Infinito14. Nel parlare del artista, uno si riferisce facilmente alla sua creatività, al suo genio, alla sua sensibilità. San Josémaria evocava volentieri la sapienza dell’artista : la sapientia non è altro che la sapida scientia, la scienza del amore.

Forse per questo, quando san Josemaría parla di santificazione del lavoro, ci invita a fare del lavoro un arte, a lavorare come l’artista : fabbricare, con la materia prima della nostra vita, non un oggetto di serie, ma un opera d’arte.

Questa sapienza tocca il più profondo del essere, aspira all’eternità. Vediamo dunque la questione del tempo e dell’eternità, ritornando al mistero della morte e resurrezione di Cristo.

5. Il tempo e l’eternità

Poco prima della sua profezia sull’attrazione a sé di tutti gli uomini, Cristo ascolta la voce del Padre che esalta l’accettazione della morte da parte del Figlio. In risposta all’abbandono filiale alla volontà del Padre e dunque all’accettazione della morte («Padre, salvami da quest'ora! Ma è appunto per questo che io sono venuto in quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome» [Gv 12,27-28]), Gesù sente la voce dal cielo: «L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!» (Gv 12,28). Gesù pregherà più avanti il suo Padre associando di nuovo alla propria morte la gloria del Padre e la sua: «Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1). Joseph Ratzinger spiega questa misteriosa glorificazione, non solo della croce ma della morte stessa di Cristo, alla luce dell’istituzione dell’Eucaristia: «L’evento dell’Ultima Cena è un’anticipazione della morte, la trasformazione della morte in un atto d’amore. Solo in questo contesto si può capire che cosa voglia significare Giovanni quando chiama la morte di Gesù glorificazione di Dio e glorificazione del Figlio (Gv 12,28; 17,21). La morte che, per sua natura, è la fine, la distruzione di ogni relazione, viene da lui trasformata in un atto di comunicazione di sé; e questo è la salvezza degli uomini, in quanto significa che l’amore vince la morte. La stessa cosa possiamo esprimere anche da un altro punto di vista: la morte, che è la fine della parola e la fine del senso, diventa essa stessa parola e dimora del senso che si dona»15.

Sant'Agostino, nel suo incomparabile commento alla prima lettera di san Giovanni, che afferma che Dio «Ci ha amati per primo» (1Gv 4,19), aggiunge che Dio «donavit nobis diligere»: «ci ha donato la capacità di amarlo»16.

L’accettazione del dono di Dio si trasforma in certo modo in un dono dell’uomo a Dio. Come spiega sant'Agostino questa comunione nell’amore? Utilizza un paragone che un artista comprenderà meglio di chiunque altro. «C'è qui davanti agli occhi legna di quercia; un buon falegname vede questo legno non ancora livellato, appena tagliato dal bosco, e se ne interessa» (m'immagino qui Romano Cosci che sceglie un blocco di marmo nelle cave di Pietrasanta). «Certo non s'è preso interesse a quel legno perché esso rimanga sempre lo stesso. È la sua arte che gli mostra ciò che il legno sarà, non l'interesse per il quale vede ciò che è ora; e lo ha amato per quel che ne avrebbe fatto, non per quello che è. Così Dio ci ha amato, pur essendo noi peccatori. Diciamo che Dio ha amato i peccatori. Disse infatti: Non i sani hanno bisogno del medico ma gli ammalati (Mt 9,12). Dio ha forse amato noi peccatori perché restassimo tali? Egli ha guardato a noi come quel falegname al legno tagliato nel bosco, e pensò a ciò che avrebbe fatto e non già al legno informe che era»17.

È così che Gesù ci guarda, dalla Croce, come dei figli di Dio; è così che il cristiano vede nel suo prossimo un figlio di Dio; nel pane eucaristico, ciò che diverrà il Corpo di Cristo. L’artista vede nel marmo la statua. Dio scolpisce in noi un'immagine, quella di Cristo. In ciascuna di queste affermazioni, v'è una proiezione verso il futuro, e, ancor più, verso l’aldilà. Nel suo idealismo, Malraux diceva che «l’arte è un antidestino». Il mio parente Albert Samain, come tanti poeti, ha sentito il bisogno di evadere dalla monotonia dei giorni tristi e grigi: «Mon âme est une infante en robe de parade» («La mia anima è una infante in abito di corte»). Questi versi li avrebbe recitati Sergio Corazzini, qualche giorno prima della sua morte, a Marino Moretti, l’amico di Firenze, come ha ricordato François Livi nei suoi lavori sulla poesia simbolista e crepuscolare18. Nonostante le parole di Samain siano divenute un luogo comune, la loro bellezza rimane; essa esprime la grave sensibilità d’un poeta al pensiero della morte. La sua arte è la ricerca dell’assoluto. Cosa dice della sua anima? « Elle écoute la vie -au loin- comme la mer »... « Elle va, s’enchantant de mots mystérieux » («Essa ascolta la vita – da lontano – come il mare»... «Essa va, incantandosi di parole misteriose»).

Ora, se vi sono delle parole che sono misteriose, queste sono proprio quelle della liturgia. Il poeta non pensa alla forza d’eternità della liturgia. Eppure è proprio nella liturgia, ancor più che nell’arte, nella liturgia, arte suprema forse, che noi siamo liberati dalla morte. Gli orologi dovrebbero fermarsi durante la Messa, diceva san Josemaría. Nella lettura del Vangelo oggi soffia la brezza del lago di Genesaret e a Gerusalemme gli ulivi drammatici continuano a piangere.

Se è vero che le nostre opere possono sopravvivere a noi per un certo tempo, la Messa, opus Christi, opus Dei, è già il cielo che scende sulla terra. La statua di san Josemaría è attorniata da due angeli. Anche qui si può apprezzare la perfetta armonia del monumento, perché la liturgia dell’Eucaristia, presente nella casula e nell’iscrizione della statua, è un'anticipazione della liturgia celeste, che l’Apocalisse descrive parlando del «banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9). Cristo, il Verbo, la Parola eterna di Dio, ha profetizzato con queste parole di vita eterna: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna», egli «dimora in me e io in lui» (Gv 6,54-56), diviene figlio di Dio.

Anche il culto spirituale unisce cielo e terra. “Sembra che si uniscano laggiù, sulla linea dell’orizzonte”, diceva san Josemaría; ed aggiungeva: “invece no, è nei vostri cuori che si fondono davvero, quando vivete santamente la vita ordinaria...” 19.

Le realtà spirituali del mistero cristiano si manifestano in quei segni sensibili ed efficaci che sono i sacramenti. La statua di Romano Cosci è in qualche modo liturgica. Essa evoca la Parola e il Pane: l’Eucaristia, nella quale il frutto del lavoro degli uomini è offerto a Dio. Essa ci rimanda simbolicamente a Cristo, al suo Vangelo e alla sua Chiesa, famiglia della Santissima Trinità, e ci fa intravedere il mistero di Dio e l’amore al quale egli ci invita a partecipare.

Questa statua è venuta fuori da un grande blocco di marmo, estratto dalle cave di Pietrasanta, «la pietra santa». Gesù ha applicato a se stesso il Salmo 118, che avrà probabilmente cantato al momento dell'Hallel dell'ultima cena: egli è la «pietra d’angolo» (Mt 21,42; cf. Ps 118[117],22). La statua di san Josemaría ricorda che Cristo attrae a sé tutte le cose. Riprendendo l’interpretazione che Daniele fa del sogno di Nabucodonosor, Sant'Agostino vede Cristo come «la pietra staccata dal monte senza concorso di mano umana»20. Si riferisce alla concezione miracolosa di Gesù, che significa al tempo stesso, per il Verbo di Dio, distaccarsi dalla nostra umanità – la sua Persona è divina – mentre prende la condizione umana: egli è vero Dio e vero Uomo. Agostino aggiunge che questa pietra è divenuta a sua volta una grande montagna che riempie tutta la terra: Cristo ricapitola in sé tutta la creazione, tutta l’umanità, che nella Chiesa si riconcilia con Dio. Al momento del mio breve soggiorno a Firenze, nel 1974, un cartello nel chiostro d’una chiesa si dirigeva così ai turisti: «Se credi, prega; se non credi, ammira; se sei un idiota, scrivi il tuo nome sul muro». La bellezza del arte, come quella della liturgia, ci invita a un continuo superamento personale. Possa l'opera di Romano Cosci aiutarci a passare dall’ammirazione alla preghiera, cioè a lasciarci prendere dall’amore di Dio!

Note

1. Testo del mio intervento a Firenze il 1 ottobre 2008, nella Sala Verde del Palazzo Incontri, per la Tavola Rotonda San Josemaría, l’arte e gli artisti, con occasione della presentazione del volume San Josemaría nella Basilica di San Pietro, MCM Firenze, Pacini Editore, Pisa, 2008, 104 pp., con testi di Guillaume Derville, Michele Dolz, Giancarlo Polenghi, e fotografie di Aurelio Amendola, Juan María San Millán, Stefano Savella; Coordinamento: Antonio Cózar; progetto grafico e impaginazione: Gaetano Del Duca.

2. JACQUES BÉNIGNE BOSSUET, Elevazioni a Dio, V Settimana, I Elevazione, Pia Società San Paolo, Roma 1946, p. 118.

3. JOSEPH RATZINGER, “Lasciare operare Dio”, L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2002 (in occasione della canonizzazione di Josemaría Escrivá).

4. BLAISE PASCAL, Pensées, Lafuma-Brunschvicg, 368-474, in Œuvres complètes, Seuil, L’Intégrale, 1988, Paris, p. 545.

5. SANT'AGOSTINO, Comento alla lettera di san Giovanni, V, 4, in www.augustinus.it.

6. CONCILIO VATICANO II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 10.

7. JOSEPH RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Milano 2001, pp. 30-31.

8. BENEDETTO XVI, Omelia, Santa Messa del Crisma, Basilica Vaticana, Giovedì Santo, 5 aprile 2007.

9. SANT'AGOSTINO, Comento alla lettera di san Giovanni, IX, 9, en www.augustinus.it.

10. SAN JOSÉMARIA ESCRIVÁ, Appunti, n. 218, cit. in ANDRÉS VÁZQUEZ DE PRADA, Il fondatore dell’Opus Dei, vol. I, Leonardo, Como 1999, p. 402.

11. SAN JOSÉMARIA ESCRIVA, È Gesù che passa, n. 48.

12. Il 1° giugno 1975, osservando la pittura della cappella della Santa Croce, presso il Collegio Romano della Santa Croce, secondo una testimonianza diretta di Antonio Miralles).

13. SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Forgia, Ares, Milano, 1995, n. 385.

14. Cf. par exemple JAVIER ECHEVARRÍA, Memoria del Beato Josemaría, Leonardo International, Como, 2001, p. 97.

15. JOSEPH RATZINGER, Il cammino pasquale, Ancora, Milano, 1986, p. 104.

16. SANT'AGOSTINO, Commento alla lettera di san Giovanni, IX, 9, in www.augustinus.it.

17. SANT'AGOSTINO, Commento alla lettera di san Giovanni, VIII, 10, in www.augustinus.it.

18. FRANÇOIS LIVI, Dai simbolisti ai crepuscolari, Istituto Propaganda Libraria, Milano, 1974, pp. 194-195; Cf. ALBERT SAMAIN, Au Jardin de l’Infante, 1893.

19. SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ, Amare il mondo appassionatamente, in Colloqui con Mons. Escrivá, Ares, Milano, 2002, n. 115.

20. SANT'AGOSTINO, Commento alla lettera di san Giovanni, I, 13, in www.augustinus.it.; cf. Dn 2, 34-35.