Josemaría Escrivá: il buon umore dei santi

Fra i santi "da altare” che la vita gli ha fatto incontrare, un posto specialissimo nel cuore di Navarro Valls è riservato a San Josemaria Escrivà, il santo dell’ordinarietà della vita quotidiana. Riportiamo un brano del libro in cui ne traccia un ritratto particolarmente vivo e sorridente.

Fin dai tempi del suo mandato di direttore della sala stampa vaticana, Joaquin Navarro-Valls ci ha abituati ad uno stile di comunicazione con i media diretto e ben poco formale, dal tratto sempre moderno, elegante e sorridente, capace tuttavia di profonda commozione, come in occasione della morte di Giovanni Paolo II.

Nel suo recente libro A passo d’uomo possiamo scoprire la sua profondità umana e intellettuale attraverso il racconto di incontri con i protagonisti della storia (da Madre Teresa a Fidel Castro) e di episodi della quotidianità di Giovanni Paolo II. Fra i santi "da altare” che la vita gli ha fatto incontrare, un posto specialissimo nel cuore di Navarro Valls è riservato a San Josemaria Escrivà, il santo dell’ordinarietà della vita quotidiana. Riportiamo un brano del libro in cui ne traccia un ritratto particolarmente vivo e sorridente.

Santità nella naturalezza quotidiana

Santità è oggi una parola enigmatica. Ma non è stato sempre così. Un'epoca permeata di ambiguità di valori come la nostra presenta il concetto stesso di santità come una chimera. E quando, con il linguaggio che oggi utilizziamo, ci confrontiamo con questa parola, non sappiamo spesso cosa farcene.

Avvertiamo un'analoga perplessità in relazione al concetto di santo. Al di fuori delle nicchie delle chiese, il santo non sappiamo davvero dove collocarlo. Ciò è in parte conseguenza della crisi di modelli che caratterizza la nostra cultura: all'eroe si riconosce cittadinanza solo nella letteratura e al santo nella penombra inoffensiva dei templi. Però nella vita, ossia nella nostra realtà immediata, entrambi vivono unicamente come ombre irreali, come archetipi più prossimi al mito che al modello dal quale si può apprendere o che si può imitare.

Questo pone diversi problemi, e uno in particolare: come farsi un'idea di che cosa sia un santo? O detto in altro modo: da dove la maggior parte delle persone ricava l'idea di santità? È probabile che la prima nozione sia giunta a noi attraverso le arti figurative: inizialmente per mezzo dell'iconografia o delle immagini religiose e poi attraverso la letteratura agiografica e apologetica. Ciò resta vero, benché le arti non abbiano fatto sempre onore alle vite dei santi.

Il santo e la santa, che appaiono nella maggior parte dell'iconografia e dell'arte visiva cristiana, rispondono principalmente ai criteri del simbolismo plastico, come avviene per un ritratto che cerca di immobilizzarli in un momento paradigmatico della loro esistenza. E questo fa sì che l'immagine marmorea della santità appaia frequentemente in un contesto di circostanze eccezionali, generando l'impressione che tali momenti siano gli unici capaci di inquadrare la vita perfetta.

Noi tendiamo spontaneamente a lasciarci sedurre dallo spettacolare e dallo straordinario. E, quando si tratta di una persona santa, ciò diviene addirittura un modo sbrigativo di attribuire doti non comuni a persone che, malgrado tutto, rimangono uomini come gli altri: migliori, senza dubbio, ma simili in tutto a tutti, con fragilità e limiti analoghi a ogni altra persona.

È chiaro che i santi hanno qualcosa in più rispetto a coloro che tanto santi non sono. Ma questo carattere particolare si accompagna a una maggiore naturalezza, non a una maggiore singolarità. Mi vengono in mente due riflessioni in questo senso ricavabili dalla tradizione filosofica occidentale. La prima è di Pascal, che diceva che ogni uomo ha sempre grandezza e miseria. Se gli manca un aspetto dei due, c'è qualcosa di irreale o ipocrita nella sua persona. La seconda è di Aristotele, che affermava la natura sociale degli uomini. Chi vive da solo, isolato e segregato, di solito è o un criminale o un pazzo, e mai un modello da imitare.

Tali note trovano una loro conferma in una personalità così eccezionale e così irripetibile, ma anche così attenta a evitare l'originalità posticcia e inutile, come quella di san Josemaría Escrivá. Forse questo spiega perché Giovanni Paolo II lo definì, durante la sua canonizzazione nel 2002, il «santo dell'ordinario».

Se c'è una cosa che egli ripeteva sempre - e che io stesso ho sentito tante volte - era che tutti devono essere santi, o comunque tutti devono per lo meno sforzarsi di esserlo, ma che nessuno deve sentirsi o essere per questo eccezionale.

Orizzonti sconfinati e realismo soprannaturale.

Certo, a ripercorrere le tappe a ritroso della vita di san Josemaría Escrivá si scoprono tutti i segni premonitori della sua santificazione. È constatabile una piena coerenza nella sua vita. Quella di san Josemaría è stata, però, un'esistenza lineare in cui risalta un tratto definitivo: l'aderenza alla realtà e un completo inserimento nel quotidiano. Uomo di grandi vedute, di sogni, amante di orizzonti sconfinati, ma sempre e soprattutto realista: uno spirito obiettivo.

Già qui bisogna capirsi, però. Non è veramente possibile, e sembra un paradosso, inserire se stessi nella vita reale, nella propria vita autentica, perché ciascuno è già dentro la sua vita sempre, non potendola abbandonare per definizione. Quello che può capitare, invece, è che ci si distacchi volontariamente dai propri doveri e, come un aeroplano che corre veloce su una pista, a un certo punto ci si innalzi al di sopra della terra per andare chissà dove, magari fuggendo lontano, anche se soltanto con l'immaginazione.

Il Cristianesimo rimanda sempre alla vita. Ma bisogna pur riconoscere che spesso l'ideale di vita cristiana si è manifestato come qualcosa di talmente alto da essere alternativo alla vita stessa. E, quindi, essere santi non sembrava compatibile con un percorso esistenziale comune. In fondo, era come se non fosse adeguato all'ordinario. Tanto meno con la vita concreta delle persone che lavorano e popolano le società. Per tutta una serie di ragioni, vivere da cristiano sembrava voler dire sganciarsi dalla realtà quotidiana dei più, per entrare in una sorta di anticipazione celeste ed escatologica della beatitudine eterna. Il filosofo francese Etienne Gilson, parlando della spiritualità medievale, ha usato una definizione calzante per indicare tale prospettiva di santità: un «paradiso claustrale». Andare in Cielo era vivere già qui nel tempo fuori del mondo, in un tempio chiuso, stretto tra le mura di un ambito - materiale o immaginario - lontano dalla storia degli altri. Era fondamentale comunque non contaminarsi con il fango della terra, preservando se stessi immacolati sino alla fine.

Non c'è nulla da ridire. Anzi, le strade personali - anche, quindi, quelle dei santi - sono molteplici. Tutte sono valide, purché si tratti di scelte che rispondano a una specifica vocazione personale, la quale, in ogni caso, non esaurisce mai la vocazione cristiana come tale. Si può essere cristiani pur non sentendosi chiamati a vivere una vita del genere, orientata alla ricerca totale di uno stato di perfezione lontani dal «mondo».

Bisogna chiedersi sempre se essere cristiano non possa essere qualcosa di più di quanto immaginiamo, di più universalmente umano. A leggere la vita dei santi pare che le cose siano andate in realtà in modo diverso anche per loro. Se non avessero orientato «socialmente» la loro santità, non avrebbero trasmesso proprio niente a nessuno, e soprattutto non si sarebbero identificati veramente con Cristo. Come diceva Pier Damiani, che di spirito religioso ne sapeva qualcosa, il monaco è tale non per fuggire il mondo, ma per pregare per la salvezza della terra. Gesù, in effetti, non si è ritirato nel deserto per rimanerci definitivamente, ma per purificarsi prima di redimere la storia, vivendo all'interno della società della sua epoca fino al momento della salvezza di tutti sulla Croce.

In cammino giorno per giorno

Il primo senso rilevante della storia di san Josemaría Escrivà è stato rompere con una prospettiva univoca di santità, recuperando una visione più originaria e più universale della vita cristiana. Senza entrare in un percorso esegetico, è importante rimarcare il fatto che per lui in gioco non c'era mai un'idea speciale di santità, ma una possibilità per l'uomo di oggi di vivere da cristiano nel suo ambiente, come fecero quei primi uomini e quelle prime donne che si convertirono, mangiando il cibo spirituale contenuto nel Vangelo e trasformando la fede in un'esperienza personale valida concretamente nel presente della loro vita ordinaria.

Poiché il Cristianesimo è, in fin di conti, un modo di vivere, cioè un cammino di santità, è chiaro che la prassi ascetica di un uomo di fede deve per forza risultare aderente alla vita ordinaria, compatibile con l'esperienza di tutti i giorni.

Un programma di vita cristiana completa ed esigente, d'altra parte, è stato il modo in cui san Josemaría ha portato concretamente il Cristianesimo nella propria vita. Bastava incontrarlo anche per pochi minuti, per vedere emergere dal suo modo di fare talmente tante virtù umane da restare sbigottiti. Stupefacente era la maniera naturale, non spettacolare, di vivere. D'altra parte, se c'è una cosa in cui il cristiano deve essere eccezionale è l'esercizio delle virtù, comprese quelle umane. E per capire come fare, occorre non fermarsi alle definizioni astratte, ma entrare nell'ambito vero e proprio della condotta da tenere.

L'insegnamento di sant'Escrivá propone l'acquisizione di comportamenti virtuosi che si legano indissolubilmente alla particolarità della vita ordinaria, come un guanto ben fatto a una mano. Possiamo pensare alle virtù per l'anima come ai tatuaggi per il corpo. Sono segni presenti nell'interiorità, che tingono i contorni dell'anima in modo pressoché indelebile. Le virtù possono essere permanenti oppure no, secondo l'efficacia e la forza con cui sono impresse. Solo quando l'inchiostro è autentico, però, l'immagine non se ne va più, altrimenti sbiadisce col passare degli anni fino a non vedersi più per niente.

“…26 anni, grazia di Dio e buon umore”

Può aiutare a capire il messaggio dì sant'Escrivá prendere come esempio una virtù umana che egli possedeva in modo eccezionale: il buon umore. Si tratta non di una virtù unica, né di un atteggiamento superiore a tanti altri. Il fatto è che soltanto con gioia si possono far crescere tutte le altre virtù umane, mentre senza allegria è difficile compiere anche un passo solo in avanti nella vita spirituale. La contentezza autentica è come un manto incorporeo, è come una coltre di luce battente che illumina se stessi e gli altri, è come la stoffa in cui la persona ricama e rifinisce i contorni virtuosi che ornano la propria anima.

Spesso egli amava ricordare quando negli anni Trenta, immerso nelle difficoltà economiche e spirituali che seguirono la fondazione dell'Opus Dei, cercava sempre di conservare l'unione con Dio, senza perdere un atteggiamento positivo verso gli eventi e verso la vita. Quando, in un'intervista della fine degli anni Sessanta, gli chiesero come fu fondata l'Opus Dei, egli rispose così: «Senza alcun mezzo. Io avevo solo 26 anni, grazia di Dio e buon umore».

Durante il periodo che visse a Madrid non gli fu sempre facile, però, mantenere vivo il buon umore. Amava spesso ricordare che per un breve periodo addirittura non riusciva a sorridere. In quei giorni difficili, anche un po' per ingannare l'amarezza che le circostanze gli portavano quotidianamente, decise di farsi fare una foto che lo ritraeva imbronciato, e di tenerla sempre nel portafoglio. Di tanto in tanto, la tirava fuori e la guardava, per ricordarsi quanto fosse sciocco quel cattivo umore di allora e quanto fosse ridicolo il suo involontario atteggiamento pessimista di un tempo.

Naturalmente, non si trattava per lui, e non si deve trattare neanche per gli altri, di negare la percezione reale delle difficoltà o di perdere il contatto con i problemi che doveva affrontare. Il buon umore di cui egli parlava non era uno stratagemma per evitare i dolori e le sofferenze. Era essenzialmente il risultato di un modo cristiano di affrontare la vita. Era la conseguenza, impressa nel proprio carattere, del contenuto della fede professata. Per questo l'ottimismo cristiano non è tanto un tratto psicologico quanto una profonda determinazione personale. Una convinzione, insomma. Mi ricordo che sant'Escrivá ripeteva spesso che «nessuno può essere felice fin quando non decide di esserlo». Con tale affermazione, in effetti, egli voleva riassumere lo status spirituale profondo dell'anima: l'adozione consapevole di una pace interiore e di una tranquillità che poteva essere raggiunta da chiunque, purché fosse sostenuta e garantita da una concreta ed effettiva vita spirituale.

Per un santo, poi, tutto è inscindibile dal suo vero, reale e sacramentale rapporto personale con Dio, e inseparabile da una concreta azione dentro il mondo. Se la volontà dell'uomo è pienamente fusa con la volontà di Dio, se, come diceva Bernardo di Chiaravalle, tra l'uomo e Dio c'è «unitas spiritus», allora quello che l'uomo fa nel mondo è divino non per suo merito ma per i meriti di Cristo stesso. Il dramma per il cristiano è la rottura di questo legame personale. In quel caso, comincia il cattivo umore e si arresta il cammino di santità. Il volto umano non è più immagine di Dio ma caricatura distorta e inadeguata.

Sant'Escrivá nel 1956, riflettendo sulle diverse iniziative apostoliche che nel tempo si erano miracolosamente realizzate e diffuse a macchia d'olio, affermò in pubblico: «Vi lascio come eredità nell'umano l'amore per la libertà e il buon umore».

In effetti, si tratta di due aspetti indissociabili, intrinsecamente legati alla corrispondenza diretta e personale con Dio, che divengono e si trasformano interiormente in un'unità di vita. Ogni uomo, senza pessimismo e senza tristezza, si apre all'eternità già mentre compie con Dio i suoi passi incerti nel tempo presente.