Il contributo di san Josemaría alle idee del XX secolo

In che cosa consiste il contributo di Josemaría Escrivá alle idee del XX secolo? Due aspetti risultano particolarmente significativi: la coscienza della propria filiazione divina e l’idea di ‘unità di vita’, che significa comportarsi in ogni circostanza come figlio di Dio.

In che cosa consiste il contributo di Josemaría Escrivá alle idee del XX secolo? Due aspetti risultano particolarmente significativi: la coscienza della propria filiazione divina e l’idea di ‘unità di vita’, che significa comportarsi in ogni circostanza come figlio di Dio.

Scoprire in cosa consiste questo contributo non è un compito facile. Innanzitutto ci si potrebbe chiedere se c’è stato tale contributo: non occorre che un santo sia un pensatore originale e Josemaría Escrivá non pretese di esserlo. Riferendosi allo spirito dell’Opus Dei, diceva che era ‘Vecchio come il Vangelo e come il Vangelo nuovo’: in questa frase potremmo individuare una ragione per non indagare oltre.

Ciononostante, uno sguardo attento permette di scoprire che nella sua predicazione, così come in tutta la sua vita, il messaggio evangelico appare sotto una luce nuova; per questo coinvolge persone di ogni tipo e condizione, senza distinzione di razza, cultura, condizione sociale o economica, che si sentono quindi direttamente interpellate. Proclamando ai quattro venti che la santità non è cosa per privilegiati, che la vita quotidiana e ordinaria offre materia abbondante per la santificazione, Josemaría Escrivá ha riscoperto e riproposto un’indicazione evangelica evidente, ma finita nell’oblio con il passar del tempo e che, alla luce dei fatti e delle idee del XX secolo, riveste particolare rilievo.

Nel contesto generale delle affermazioni sulla vita ordinaria nella quale si muove la predicazione di Josemaría Escrivá – che egli stesso audacemente qualificò di ‘materialismo cristiano’ – due aspetti risultano assai significativi, ovvero la coscienza della propria filiazione divina (fondamento dello spirito dell’Opus Dei) e l’idea di ‘unità di vita’, che significa comportarsi in ogni circostanza come figlio di Dio, evitando la tentazione di condurre come una doppia vita: da un lato il rapporto con Dio, dall’altro una vita piena di realtà umane – famiglia, lavoro, relazioni sociali, ecc. – nella quale però Dio non trova spazio.

Se accettiamo, con molti storici, che il XIX secolo, con le sue reminescenze aristocratiche, termina con la prima Guerra Mondiale, allora il XX secolo ci si presenta – come già si augurava Tocqueville – sotto il segno di una lenta ma generalizzata evoluzione verso uno stato socialdemocratico, nel quale le nozioni di ‘vita ordinaria’ e di ‘professione’ acquistano un particolare significato. In questo senso, la riflessione filosofica e sociologica del periodo tra le due guerre mondiali costituisce uno scenario di fronte al quale il messaggio della santificazione della vita ordinaria – che come instancabilmente proclamò Escrivá ruota intorno al lavoro come intorno al suo cardine – risulta specialmente luminoso.

In effetti, nel contesto del ‘disincanto del mondo dalla scienza’, preconizzato da Max Weber, e dell’emergente necessità di immettere nel mondo oggettivo della scienza il senso che deriva dal mondo della vita, come sottolineato da Husserl, l’insistenza di Escrivá per ‘l’unità di vita’ è come un faro luminoso: ‘Abbiamo un’unica vita, fatta di carne e di spirito, e questa deve essere, nell’anima e nel corpo, santa e piena di Dio’. In questa idea è contenuta un’implicita chiamata a superare il tipico dualismo di quegli uomini dell’epoca moderna che Max Weber descriveva come ‘specialisti privi di spirito, viventi senza cuore’: gli stessi che danno forma a questa società ‘di massa’ nella quale, come ha visto Hannah Arendt, hanno trovato alimento i deliri totalitari del XX secolo.

‘Spirito’ e ‘cuore’, al contrario, sono due parole ricorrenti nella predicazione di Escrivá, che, ‘in confidenza di amico, di fratello, di padre’, si rivolge sempre alla singola persona, ignorando la ‘massa’. Questo orientamento, così cristiano, verso la persona concreta si nutre del rispetto e dell’amore per la dignità della persona, creata a immagine e somiglianza di Dio, la cui redenzione dal peccato ha richiesto ‘tutto il sangue di Cristo’. Quanto grande deve essere la dignità dell’uomo per meritare la morte di Dio! Il pensiero astratto può cercare di esprimere in mille modi questa idea, ma difficilmente sarà in grado di trasmetterla con la forza e l’esperienza di un santo. È difficile trovare, nel XX secolo, una fiducia nella dignità dell’uomo così totale. Nel contesto in cui ci muoviamo oggi, di smantellamento del pensiero moderno, l’idea di ‘dignità’ non trova una buona accoglienza; per questo motivo richiama fortemente l’attenzione la fede di Escrivá nell’uomo, manifestata in tanti modi e specialmente nell’affermazione categorica della sua libertà.

L’idea di libertà di Escrivá, che si rivela nella pratica molto più radicale di quanto lo sia la libertà oggi sbandierata, ha una radice profonda, teologica: ‘La libertà con la quale Cristo ci ha liberati’. Come ha dimostrato Cornelio Fabro, questa idea può essere messa a confronto con quella di San Paolo o di Sant’Agostino: essa, infatti, non è priva di conseguenze nella convivenza sociale e politica. Molto presto – decisamente in anticipo sulla ripresa del dibattito contemporaneo intorno alla società civile – Escrivá si espresse positivamente in merito al pluralismo in tutte le opzioni temporali. Parlò concretamente della virtù della ‘cittadinanza’, che intese come il sentirsi ed essere ‘cittadini’ del mondo, conferendogli una valenza innovativa almeno per i canoni dell’epoca.

La sua predicazione, orientata alla crescita nelle virtù e non al solo compimento dei comandamenti, risulta di speciale interesse almeno per due motivi: per l’intreccio esistenziale di natura e grazia che rivela, e per il linguaggio stesso in cui si esprime. Come ha osservato il fenomenologo Robert Sokolowski, tale linguaggio riflette una penetrante conoscenza della psicologia umana, risultando per ciò stesso straordinariamente vicina all’uomo moderno. In generale, la sua enfasi sulle virtù – con ciò che questo concetto comporta di superamento e di crescita – non è altro che una manifestazione ulteriore dell’ottimismo di cui è nutrito il suo messaggio, e che si trasmette al modo di intendere la vita stessa.

È difficile trovare un messaggio che, pur essendo così cosciente della miseria dell’uomo sia al tempo stesso così ottimista, così contagiosamente ottimista. La definizione che dava di se stesso – ‘un peccatore che ama alla follia Gesù Cristo’ – contiene i due elementi di questo paradosso che, più che la famosa ‘canna pensante’ di Pascal, illumina la miseria e la grandezza dell’uomo. In ultima analisi, una fiducia nella dignità umana come quella di Escrivá – così solida, nonostante abbia personalmente subito tante ingiustizie – può avere soltanto un fondamento soprannaturale.

La filiazione divina è per lui questo ‘Fondale dove gettare l’ancora, succeda quel che succeda sulla superficie del mare della vita’. Alla domanda sull’identità radicale dell’uomo, Escrivá non risponde in termini di cultura, nazione o – come direbbe sant’Agostino – storia (una storia che risale al peccato di Adamo), ma rimandando all’origine radicale: figlio di Dio, ‘non c’è che una razza sulla terra… la razza dei figli di Dio’. Escrivá credeva in Dio e nell’azione di Dio nella storia e nella vita dei singoli uomini. È questa fede gigantesca, che potrebbe sembrare infantile, ciò che diede alla sua vita una fecondità prodigiosa, scandalosa per una civiltà che ripone troppo spesso tutte le sue speranze nella materia.

Ana Marta González

Articolo di Ana Marta Gonzalez, professoressa di Etica e Antropologia presso l’Università di Navarra, pubblicato sulla rivista spagnola Época.