Figlie Fedeli

In ocassione del 14 febbraio, raccogliamo un brano dal libro "Mia madre la Chiesa", da Michele Dolz. Nel maggio 1937 il Padre, nell’ambito della loro corrispondenza, le aveva rivolto un invito singolare: «Mi piacerebbe tanto che diventassi mia nipote».

Tra le priorità urgenti del Padre nel dopoguerra c’era la ripresa dell’apostolato con le donne. Di quella manciata di figlie spirituali accolte prima, alcune erano morte, altre dovettero essere indirizzate dallo stesso Padre verso altri cammini ecclesiali, perché non avevano compreso lo spirito dell’Opera. Le calamità della guerra avevano influito su di loro in maniera particolare.

Il Padre questa volta si rivolse alle sorelle dei suoi figli, che se non altro potevano orientarsi su che cosa significasse la santificazione in mezzo al mondo attraverso l’esempio dei propri fratelli.

Lola Fisac

Già nel 1939 viaggiò a Daimiel, un paese della Mancha, per incontrare Lola Fisac, sorella di Miguel. Questi, nei primi anni di guerra, si era dovuto nascondere nella casa di famiglia a Daimiel per scappare a una morte sicura. E da lì comunicava col Padre attraverso le lettere, redatte dalla sorella per sicurezza. Fu così che Lola andò capendo dalla penna del fondatore, oltre che dal fratello, i tratti essenziali dello spirito dell’Opus Dei, pur con le necessarie accortezze che la censura postale imponeva. Nel maggio 1937 il Padre, nell’ambito della loro corrispondenza, le aveva rivolto un invito singolare: «Mi piacerebbe tanto che diventassi mia nipote». Al che ella aveva risposto: «Nonno, riguardo a quel che mi dice, rispondo di sì». Seguirono le peripezie del fratello per scappare e le difficoltà del carteggio. Ma finalmente, il 18 aprile 1939, il Padre arrivava a Daimiel, dove la famiglia lo attendeva con emozione incontenibile.

Del giorno dopo è un lungo colloquio con Lola, che gli fece il racconto della sua vita. In risposta il Padre le chiese un pezzo di carta. Frugando nella scrivania la giovane trovò solo uno di quei fogli bordati di nero che si usavano per le lettere di condoglianza, ma andava bene ed era persino divertente il contrasto tra il filo di lutto e la gioiosa speranza di quanto il padre scrisse.

Roma, 26 giugno 1975. Ultima foto di San Josemaría

Scrivere a Madrid ogni otto giorni

Sancta Maria, Spes nostra, Ancilla Domini, ora pro nobis, fu l’intestazione. E poi il piano di vita spirituale cui la ragazza doveva attenersi: mezz’ora di orazione mentale «al mattino, sempre alla stessa ora». «Presenza di Dio», scrisse in seguito, e le suggerì di dedicare ogni giorno della settimana a una devozione. «Reciti il rosario?», le chiese e Lola raccontò che lo recitavano in famiglia e che in tempo di guerra avevano recitato le tre parti. Poi, esame di coscienza: mettersi alla presenza di Dio, chiedergli luce, rivolgersi alla Madonna, a san Giuseppe a all’Angelo Custode prima di interrogarsi sui doveri con Dio, con il prossimo e con se stessa. Le prescrisse quindi la lettura spirituale sulla Storia di un’anima di Santa Teresina. Sempre, comunioni spirituali e atti d’amore e di contrizione. Concluse le istruzioni scritte con una breve raccomandazione: «Vivi la Comunione dei Santi», e un consiglio: scrivergli a Madrid ogni otto o dieci giorni. Per il ritiro spirituale, pure importante, avrebbe dovuto raccogliersi a meditare una volta al mese.

Nel corso del 1939 Lola si recò a Madrid in diverse occasioni. Si fermava a parlare col fondatore, ma anche con sua madre, la signora Dolores, e con sua sorella, Carmen. E la povera Lola si doveva sentire una nullità se il Padre dovette consolarla per lettera: «Stai tranquilla, stai andando bene. Il Signore edifica sempre sul nulla! Ha bisogno di tutti gli strumenti: gli utensili del falegname e le pinze del chirurgo. Che cosa importa? Il bello sta nel lasciarsi usare».

Un giorno il Fondatore illustrò il panorama apostolico dell’Opus Dei, come lo aveva in mente. Descrisse gli apostolati futuri con tale realismo, come se parlasse di cose fatte, «che ci sembrò sorprendente e splendido. Mi spaventò alquanto», scriveva Lola.

Nisa Guzmán

Nisa Guzmán

Ai primi di agosto 1940 don Josemaría era a León per tenere gli esercizi spirituali ai sacerdoti della diocesi, su invito del vescovo Carmelo Ballester. A San Juan de Renueva era parroco il suo carissimo amico don Eliodoro Gil, il quale fece in modo che in quei giorni andasse a trovarlo una ragazza che si confessava da lui, Narcisa González Guzmán, detta Nisa.

Da don Eliodoro, Nisa aveva sentito qualcosa sull’Opera e sul fondatore, ma poco. Eppure, da giovane intraprendente com’era, si presentò nell’austero palazzo arcivescovile, dove il Padre alloggiava, pronta a incontrarlo. Nisa di famiglia benestante, padrona di varie lingue, campionessa di sci, tennista provetta, elegante e alla moda nel vestire, mentre veniva condotta in un solenne salone presentiva che quell’incontro avrebbe avuto importanza decisiva per la sua vita. Pochi minuti dopo arrivò il Padre, la salutò e le chiese senza introduzioni:

«Figlia mia, ami tanto nostro Signore?»

«Sì; ma…, non so», rispose Nisa sconcertata. E anni dopo ricordava: «Non mi avevano mai fatto quella domanda con tale semplicità e chiarezza. Io avevo grandi desideri di compiere la volontà di Dio, consapevole che è l’unico modo di dimostrargli l’amore; ma mi rendevo pure conto di quel che comportava e, al momento, non mi sembrava di averne le forze».

«Mi rimase impresso il suo amore alla Madonna e la sua fedeltà alla Chiesa e al Romano Pontefice», annotava Nisa. Non fu lunga la conversazione, ma quando Nisa si congedò qualcosa in lei era cambiato. Non disse nulla al Padre per il momento, ma la chiamata di Dio era scoccata e si sarebbe fatta sempre più chiara. Nel maggio 1941 viaggiò a Madrid per incontrare il Padre: voleva appartenere all’Opera. San Josemaría la ascoltò attentamente e rimandò la questione ad agosto, quando insieme ad altre giovani avrebbe potuto fare un corso di ritiro spirituale nel centro di via Lagasca.

In quel ritiro il Padre tenne le meditazioni, vibranti come sempre, con la certezza conclamata che i piani di Dio si sarebbero avverati. Anche Nisa era più convinta che mai della sua chiamata. E anche il Padre, infine, se ne convinse. Le disse di continuare a fare sport, a fare apostolato andando in bicicletta con le amiche e a studiare le lingue.

Encarnación Ortega

Encarnita Ortega. Valladolid (Spagna) 1993

Dal 30 marzo al 5 aprile 1941 don Josemaría predicò gli esercizi spirituali per le giovani di Azione Cattolica ad Alacuás, vicino a Valencia. Molte non conoscevano il predicatore, altre avevano letto Cammino, ma nulla sapevano dell’Opus Dei, altre infine vi si erano recate apposta per conosce meglio l’Opera e il suo fondatore.

Al secondo gruppo apparteneva Encarnación Ortega, Encarnita per gli amici. La lettura di Cammino, pubblicato proprio a Valencia un anno e mezzo prima, le aveva aperto un panorama entusiasmante: la santità era raggiungibile anche da ragazze normali come lei e precisamente attraverso la normalità nel proprio ambiente! Non sapeva niente dell’autore, non sapeva nemmeno se era sacerdote. Ma quando la informarono che quell’Escrivá avrebbe tenuto gli esercizi, non volle assolutamente mancare. Il giorno prima dell’inizio, suo fratello, che frequentava il piccolo centro di Valencia, chiamato El Cubil, le disse festoso:

«Ho conosciuto l’autore di Cammino. È un sacerdote molto santo e molto simpatico. Gli ho detto che saresti andata agli esercizi ed egli mi ha suggerito che potresti salutarlo…».

«Ma non saprò cosa dire…».

«Tu vai e non ti preoccupare», insisté il fratello.

Non ti preoccupare

Quella tensione, condivisa da quasi tutte le ragazze, si sciolse non appena il Padre iniziò a parlare e si tramutò in raccoglimento. Il sacerdote si era avvicinato al tabernacolo, aveva fatto una genuflessione serena e devota e aveva recitato quella preghiera introduttiva tanto sincera: «Signore mio e Dio mio, credo fermamente che sei qui, che mi vedi, che mi ascolti…». Encarnita si trovò immersa nel mistero di Dio.

Encarnita Ortega, 1941

Terminata la meditazione chiese subito dove il Padre ricevesse, ed egli la invitò ad accomodarsi in una saletta pregandola di lasciare la porta aperta, come faceva quando doveva parlare da solo – poche volte – con una donna. E senza tanti preamboli le parlò dell’Opus Dei, della totale dedizione a Dio di persone normali che vogliono innalzare Cristo in cima a tutte le attività umane, dall’interno del mondo, senza isolarsi né distinguersi dagli altri; persone pronte a fare un coraggioso apostolato che, per guadagnare un’anima, li conduca fino alle porte dell’inferno: oltre no, perché lì non si può amare Dio.

Che idea grandiosa! Andava pensando Encarnita. Ma il Padre la stupì del tutto quando le disse che quello lo voleva il Signore e che l’aveva affidato a lui perché lo attuasse, sostenuto dalla grazia. Per questo serviva un pugno de donne coraggiose, molto unite alla Madonna, che lo aiutassero a fare quell’Opera di Dio.

Nell’ultimo banco della capella

Lo stupore era adesso spavento. La ragazza era andata, per deferenza, a salutare il sacerdote e si era ritrovata di fronte al fondatore dell’Opus Dei – di cui non conosceva nemmeno l’esistenza fino a pochi minuti prima – che praticamente la invitava ad «arruolarsi». Perse l’appetito e il sonno e si sforzava di pensare che il ritiro sarebbe finito presto e che quel sacerdote non l’avrebbe mai più visto. Ma quei piani divini le pulsavano nel cuore e il sacerdote sembrava davvero santo, da come celebrava la messa o l’adorazione eucaristica. Fece una meditazione sull’Annunciazione in cui metteva in risalto – o almeno così fu per Encarnita – come Dio ci faccia comprendere la sua volontà tramite gli eventi o gli uomini e che le anime che sanno raccogliersi in preghiera, come Maria, sono in grado di cogliere le chiamate divine. In un’altra parlò della purezza come virtù positiva che rende capaci di amare il Signore sopra ogni cosa. L’idea di una donazione totale si faceva largo da sola nel cuore della giovane, ma lei cercava di tacitarla. Ad ogni meditazione si sedeva una fila più indietro.

Alla meditazione finale era nell’ultimo banco della cappella. Il sacerdote parlò della passione del Signore come se tutto stesse accadendo in quel momento. Descrisse la scena dell’Orto degli Ulivi: Gesù, che prega oppresso da sentimenti di solitudine e di abbandono, dalla percezione della viltà degli uomini e dell’orrenda malvagità del peccato, angosciato per ciò che gli sta per accadere, fino al punto di sudare sangue. «Ha patito tutto questo per te. E tu, visto che non vuoi fare ciò che Egli ti sta chiedendo, abbi almeno il coraggio di guardare il Tabernacolo e di dirgli: questo che mi stai chiedendo, non lo voglio fare!», concluse. Encarnita racconta: «Poi ci spiegò la flagellazione, con tanta forza che ci sentivamo testimoni oculari. E la coronazione di spine. E la croce sulle spalle. E tutte le sofferenze della Passione… E ogni tanto tornava a ripetere: “Ha patito tutto questo per te. Abbi almeno il coraggio di dirgli che questo che ti sta chiedendo non lo vuoi fare!”.

Coraggio

Il Padre aveva solo gettato il seme, lo Spirito Santo fece il resto perché il desiderio di donazione nascesse nel cuore della giovane. Quando, dopo averci pensato a fondo, disse al Padre che era disposta a tutto, egli le parlò dell’esigenza della donazione e delle difficoltà cui sarebbe andata incontro: le donne non avevano ancora un centro, non tutti avrebbero compreso la sua vocazione, si doveva vivere una povertà reale, doveva essere disposta a lasciare quel che possedeva e ciò che sognava per il futuro; inoltre, se fosse stato necessario, doveva rendersi disponibile ad andare dove ci fosse bisogno, a imparare nuove lingue e lavorare in Francia, in Inghilterra, nel Giappone o chissà dove. Lo Spirito Santo aveva fatto un bel lavoro, perché tutto ciò, cui fino a pochi giorni prima non aveva pensato, le sembrasse possibile.

Ma la vocazione non è l’entusiasmo di un momento, richiede tempo e formazione e fedeltà per radicarsi. Il Padre lo sapeva bene. Perciò non si meravigliò quando il giorno dopo Encarnita chiese di potergli parlare: come avrebbe potuto farsi carico di tutto quell’impegno, se lei «non sapeva fare nulla»?. E il Padre:

«Sai obbedire?».

Enrica Botella

Enrica Botella e Carmen Escrivá

Agli esercizi di Alacuás partecipò anche una sorella di Paco: Enrica Botella. Suo fratello si era recato poco prima a Valencia su consiglio del Padre per parlarle dell’Opera. Ma Enrica non aveva dimostrato troppo entusiasmo. «Una cosa ammirevole» certamente, ma che non facessero conto su di lei.

Una volta ad Alacuás, Enrica dovette pensare che, avendo un fratello nell’Opera e conoscendo Cammino, fosse cortese salutare don Josemaría.

«Padre, mio fratello mi ha parlato dell’Opera».

«E io sto pregando per la tua vocazione», rispose il sacerdote.

Enrica non seppe mai spiegarsi come, ma da quel momento cominciò a sentirsi parte dell’Opus Dei. Avrebbe chiesto l’ammissione il 7 aprile 1941.

Questi primi sviluppi dell’apostolato con le donne avvenivano in concomitanza con le calunnie e le insidie che stavano diffondendosi contro l’Opera, da parte di membri della Falange (che mal comprendevano la libertà dei cittadini cattolici) e di taluni religiosi (che non capivano la mentalità secolare e l’ideale di santificazione in mezzo al mondo). E se il moltiplicarsi delle sue figlie spirituali fu per il fondatore uno zuccherino in mezzo all’amarezza, egli dovette dimostrare anche un paterno ottimismo per sorreggere quelle giovani che iniziavano a lavorare col vento contrario. «Tutto ciò che vale, costa», scriveva loro nell’ottobre di quell’anno. «E il Signore vi sta facendo gustare, in quest’ultimo periodo, piccole contrarietà. Ma stiamo già arrivando al traguardo».

Un traguardo fu in effetti l’apertura del primo centro femminile, nel luglio 1942. Era una villetta in via Jorge Manrique: due piani, seminterrato e giardino. Il Padre iniziò un nuovo capitolo della loro formazione, che dimostra singolare sapienza e conoscenza dell’animo umano. Insegnava alle sue prime figlie che avrebbero dovuto compiere fedelmente e con molto amore le norme di pietà e gli obblighi familiari e professionali, inquadrare con visione soprannaturale tutte le cose ed essere assolutamente sincere. Sempre leali con la direttrice del centro, evitando di soppesare le sue qualità, l’età o il temperamento. Non doveva accadere loro ciò che era successo a quel contadino che si rifiutava di venerare la statua di un santo della chiesa del villaggio, perché l’aveva vista intagliare in un tronco di ciliegio. «L’ho conosciuto ciliegio!», diceva per giustificarsi.

La sincerità è una virtù che il fondatore magnificò per tutta la vita: parlare, perché a tutto si può rimediare, a tutto tranne la morte, e per noi la morte è vita, diceva. Quelle giovani inesperte ebbero subito modo di mettere in pratica il consiglio quando arrivarono i primi mobili, frutto di non pochi sacrifici economici. Su un tavolo non ancora inaugurato si rovesciò un calamaio e restò segnato da un indelebile rigagnolo d’inchiostro. Chissà che dispiacere per il Padre! Ma decisero di raccontargli il fattaccio subito con semplicità.

«Non si nota neppure», le consolò, sminuendo la bruttezza della macchia. «Non m’importa che roviniate i tavoli: li sistemeremo. Quel che m’importa è che siate sempre molto sincere».

In quel villino il Padre vedeva in nuce grandi apostolati a servizio della Chiesa con lo spirito laicale, che le sue figlie avevano per davvero. Nell’estate del 1942 scriveva loro da Pamplona: «Prego per voi molte volte al giorno. Il Signore guarda con affetto codesta casetta, da cui devono nascere cose tanto grandi per la sua gloria».

Un pomeriggio del novembre 1942 giunse in via Jorge Manrique e chiamò nella biblioteca del centro le tre che vi abitavano. Encarnita Ortega riferisce l’episodio: «Stese sul tavolo un prospetto che illustrava le diverse attività che le donne dell’Opus Dei avrebbero fatto nel mondo. Il solo fatto di ascoltare il Padre, che ce lo spiegava con vivacità, dava quasi un senso di vertigine: fattorie per contadine, diverse case di formazione professionale per la donna, residenze per universitarie, attività nel campo della moda, case di assistenza alla maternità in diverse città del mondo, biblioteche circolanti che avrebbero fatto giungere libri buoni e formativi fin nei paesi più remoti, librerie… Ripiegando lentamente il prospetto, disse: “Di fronte a tutto ciò si possono avere due reazioni: una è quella di pensare che si tratta di cose molto belle, ma chimeriche, irrealizzabili; l’altra è aver fiducia nel Signore che, se ci ha chiesto tutto questo, ci aiuterà a farlo. Spero che la vostra sia la seconda”».

Lo fu eccome. Su quelle figlie fedelissime il Padre poté contare per mandare avanti i piani di Dio. Dovette spiegare loro che un domani non molto lontano le sue figlie avrebbero svolto tutte le professioni, come iniziava a vedersi tra le donne. Sarebbero state medici, avvocati, artiste, professoresse, imprenditrici, giornaliste e quant’altro. Ma a loro, a quel gruppetto iniziale, doveva chiedere di dedicarsi alla gestione dei centri nascenti in ciò che riguardava le faccende domestiche: cura della casa, cucina, guardaroba, ecc.

Già allora il Padre chiamava questo insieme di lavori «amministrazione», come erano anche «l’Amministrazione» l’insieme di persone che in ogni centro se ne occupavano. I centri maschili si erano moltiplicati ed era necessario provvedervi. Naturalmente, si sarebbe osservata la più severa separazione tra Amministrazione e Residenza, come richiedeva lo spirito dell’Opera e la semplice prudenza. Ma ci voleva l’occhio della donna, della sorella, perché il centro fosse una casa di famiglia, pulita, gradevole, accogliente.

Era qualcosa di irrinunciabile, tanto che in mancanza delle sue figlie spirituali, il Padre aveva chiesto a sua madre e alla sorella Carmen di sacrificare la loro indipendenza per occuparsi dell’amministrazione dei primi centri di Madrid.

Ora Carmen si mise al lavoro con Lola, Nisa, Encarnita e qualche altra. Trasmetteva loro con concretezza le esperienze, trascinava con l’esempio. Il Padre insegnava loro a eseguire con la maggior perfezione possibile e per amor di Dio qualsiasi lavoro, per quanto insignificante potesse sembrare. E questo sempre nel tono familiare, positivo, incoraggiante che gli era proprio. Encarnita ricorda quelle lezioni pratiche: «Abbiamo imparato il tono che devono avere le nostre case: pulite, sistemate con buongusto e curate nei particolari, evitando la taccagneria ma anche il lusso e avendo cura delle cose per farle durare. Ci insegnò chiaramente che per l’oratorio non vi è cura che sia eccessiva. Abbiamo imparato che i quadri devono essere appesi nel modo giusto, che i mobili non devono urtare le pareti, che le porte vanno chiuse in modo corretto; a disporre i fiori, apparecchiare una tavola o decorare una vetrina, con gusto ed eleganza. Ci spiegava che quando entravamo in una stanza dovevamo essere in grado di renderci subito conto di ciò che era fuori posto o rotto. Tutto ciò doveva valere a maggior ragione per l’oratorio: la sistemazione dei candelieri e della tovaglia, che doveva avere la stessa lunghezza ai due lati dell’altare, la persiana, che doveva restare chiusa quando era accesa la luce elettrica… Insisteva anche sul fatto che fossero accese solo le luci necessarie in ogni situazione. Ci insegnò a mettere sull’altare i fiori, collocandoli direttamente tra i candelieri e fuori dalla tovaglia e non in un recipiente d’acqua: così si sarebbero consumati soltanto per il Signore, senza che nulla ne prolungasse la vita».

Tutto ciò non fu senza dolore. Verso metà settembre 1943 andarono a farsi carico dell’amministrazione della Residenza Universitaria La Moncloa, primo grande collegio, che ospitava circa un centinaio di studenti, a due passi dall’università. Il Padre teneva molto al buon funzionamento, perché occhi poco benevoli erano puntati su quell’esperimento pronti a cogliere qualche aspetto criticabile. Ma la residenza era dispiegata su due villette separate dalla strada e, come spesso succede, gli operai non avevano terminato i lavori alla partenza dell’anno accademico. Le donne presero con entusiasmo il nuovo compito, assunsero alcune impiegate e soprattutto potevano contare sulle visite frequentissime del Padre.

Non ci volle molto a capire che il lavoro era molto più impegnativo di quanto fosse loro sembrato: le difficoltà logistiche delle due case separate, i problemi a trovare provviste alimentari negli anni del dopo guerra e con il resto d’Europa in guerra. Il Padre volle sostenerle particolarmente in quel periodo difficile. Insisteva sul fatto che non chiedeva cose impossibili e le aiutava a organizzarsi meglio e soprattutto a curare la vita interiore. Il 24 dicembre predicò loro il ritiro spirituale, traboccante di fede e di ottimismo.

Anche le sue figlie avrebbero avuto presto un collegio universitario, che servisse inoltre come trampolino per arrivare a molte giovani. Il Padre, chissà con quali sacrifici economici, fece cercare un immobile adatto. Lo si trovò in via Zurbarán e dopo l’estate del 1945 aiutò quelle del piccolo villino a organizzare il trasferimento nella nuova sede. Si prese cura di insegnare loro come disporre mobili e oggetti, perché non si sciupassero e diede loro le istruzioni opportune per la nuova impresa. Quando giunsero le prime studentesse, fu lui a occuparsi personalmente della loro formazione e assistenza sacerdotale. E nel nuovo, raccolto oratorio, tenne corsi di ritiro spirituale. E vide moltiplicarsi l’apostolato.

Tratto da "Mia madre la Chiesa" di Michele Dolz, Edizioni San Paolo.