Amare e servire la Chiesa

Josemaría Escrivá, quando predica o scrive sulla Chiesa, non si pone mai su un piano astratto, ma nella realtà viva del mistero di salvezza, con una venerazione ed un amore inseparabili dal suo vibrante amore per Gesù Cristo.

Josemaría Escrivá, quando predica o scrive sulla Chiesa, non si pone mai su un piano astratto, ma nella realtà viva del mistero di salvezza, con una venerazione ed un amore inseparabili dal suo vibrante amore per Gesù Cristo. Perché, come afferma in un'omelia, "la Chiesa è questo: Cristo presente in mezzo a noi, Dio che viene incontro all'umanità per salvarla, chiamandoci con la sua rivelazione, santificandoci con la sua grazia, sostenendoci con il suo costante aiuto nelle piccole e grandi battaglie della vita quotidiana" (È Gesù che passa, n. 131).

Su questo sfondo risalta, come uno dei tratti più caratteristici della contemplazione della Chiesa che il fondatore dell'Opus Dei trasmise, quello dell'universalità. La Chiesa è innanzitutto la Chiesa universale: una, santa, cattolica e apostolica, governata dai vescovi sotto l'autorità suprema del Romano Pontefice e perciò romana. Allo stesso tempo, il beato Josemaría ebbe sempre molto viva la consapevolezza che la Chiesa universale si fa presente ed agisce nelle Chiese particolari (cfr. Vat. II, Decr. Christus Dominus, n. 11). Di qui, insieme alla piena ed incondizionata adesione al Successore di Pietro, la sua unione con i vescovi diocesani, sempre affermata e vissuta come essenziale all'unità della Chiesa. Poiché l'Episcopato è "uno e indiviso" (Vat. I, Cost. Pastor aeternus, Prologo), l'unione con il Papa implica necessariamente l'unione con il vescovo di ciascuna Chiesa particolare. Così il fondatore scrive ai fedeli dell'Opus Dei già nel 1932: "L'unione che viviamo con il Romano Pontefice, fa e farà sì che ci sentiamo molto uniti in ciascuna diocesi all'Ordinario del luogo" (Lettera 9-I-1932, n. 21).

Lo spirito universale con cui Josemaría Escrivá contemplava e amava la Chiesa, oltre ad essere radicato in una corretta ecclesiologia, fu certamente potenziato dall'universalità della missione affidatagli dal Signore il 2 ottobre 1928. Riferendosi a questa data, commentava ad un gruppo di fedeli dell'Opus Dei nel 1964: "Mi chiederete: Padre, e quel 2 ottobre 1928...? Quel giorno, il Signore, nella sua Provvidenza, volle che nel seno della Santa Chiesa, della Chiesa Cattolica, la quale, perché romana, è universale, nascesse questo piccolo seme che oggi sta dando frutti in migliaia di cuori di tutte le razze, di tanti paesi" (Meditazione, 2-X-1964). Nel seno della Santa Chiesa, va sottolineato: l'Opus Dei non solo sta nella Chiesa, come in un ambito di azione; non solo è nata nella Chiesa, ma anche dalla Chiesa — in et ex Ecclesia —, come ogni realtà autenticamente ecclesiale.

Quei frutti apostolici in "cuori di tutte le razze, di tanti paesi" costituiscono ovviamente un servizio diretto alla missione della Chiesa, un servizio alla stessa Chiesa. Josemaría Escrivá considerò sempre questo servizio come la ragion d'essere dell'Opus Dei. Ad esempio, due anni prima della sua dipartita, ricordava ancora una volta: "Non abbiamo altro fine che servire il Signore, la sua Santa Chiesa, il Romano Pontefice, tutte le anime. Se l'Opera non prestasse questo servizio, non la vorrei: si sarebbe snaturata" (Lettera 17-VI-1973, n. 11). Questo servizio alla Chiesa non è quello che un'istituzione presta ad un'altra diversa, ma è quello della parte al tutto, di un membro agli altri membri di uno stesso corpo. E analogamente a come nel corpo ogni membro serve gli altri primariamente ed essenzialmente compiendo la propria funzione, così anche nella Chiesa ogni membro — in questo caso la prelatura dell'Opus Dei — serve gli altri membri innanzitutto compiendo la propria missione specifica all'interno dell'unica missione della Chiesa.

Una specifica missione di servizio alla Chiesa che è, sì, specifica nello spirito e nei modi apostolici, ma non è settoriale bensì universale, perché si estende alla santificazione del lavoro e di tutte le oneste attività umane. Come spiegava il fondatore, "il nostro lavoro apostolico non ha un fine specialistico: ha tutte le specializzazioni, perché si fonda sulla diversità di specializzazioni della stessa vita; perché innalza ed eleva all'ordine soprannaturale, e trasforma in un autentico lavoro di anime, tutti i servizi che gli uomini si prestano gli uni gli altri nell'ingranaggio della società umana" (Lettera 9-I-1959, n. 14). Si tratta di una universalità partecipata della universalità della Chiesa che, insieme ad altri aspetti ugualmente essenziali, fece sì che l'Opus Dei — come previde il suo fondatore — trovasse la forma giuridica adeguata nella "prelatura personale per peculiari compiti pastorali".

La considerazione della specificità o peculiarità di un compito pastorale, all'interno della missione della Chiesa, ci ricorda che l'universalità, intesa come cattolicità, ha tra le altre caratteristiche quella dell'unità nella diversità: ossia, la vitalità della Chiesa per accogliere in una salda unità una grande varietà di ministeri, carismi, spiritualità e forme di apostolato. Si manifesta anche così la Chiesa come mistero di comunione; infatti "l'universalità della Chiesa, da una parte, comporta la più solida unità e, dall'altra, una pluralità e una diversificazione, che non ostacolano l'unità, ma le conferiscono invece il carattere di comunione" (Giovanni Paolo II, Discorso, 27-IX-1989). Come ricorda Josemaría Escrivá, "ciascuno ha ricevuto da Dio il suo proprio dono, chi in un modo, chi nell'altro (cfr. 1 Cor 7, 7). Ma queste differenze devono essere poste al servizio del bene della Chiesa" (Amici di Dio, n. 234).

Nel servizio all'universale communio fidelium — che è anche communio Ecclesiarum — ognuno secondo la propria vocazione-missione all'interno della Chiesa, si trova certamente una delle chiavi per la nuova evangelizzazione: "Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo" (Giovanni Paolo II, Lett. Novo millennio ineunte, 43).

Supplemento de L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2002